Con la proiezione del terzo film in concorso, il Sudestival si allontana da Napoli, teatro dei precedenti Take Five e Song’e Napule, e si allontana anche dal cinema di finzione per arrivare in una Torino più che mai multietnica con l’ultima opera di Daniele Gaglianone.
La mia classe
Non è fiction, e non è nemmeno documentario. Creatura vagante, non catalogabile, progettata in divenire, sembra voler assomigliare il più possibile ai corpi degli studenti protagonisti, migranti veri provenienti da tutti i Terzomondi possibili, che vogliono imparare la lingua italiana per guadagnarsi il diritto all’esistenza. Metacinema solo fino ad un certo punto, La Mia Classe è film politico fino in fondo, grondante militanza, schierato dicotomicamente dalla parte giusta contro la parte sbagliata.
Persone non grate
La burocrazia legislativa che in Italia si occupa dell’immigrazione, fatta a chiara immagine della politica sullo stesso tema, è illogica, sbagliata ed insensata. Ai limiti dell’osceno. Le squallide odissee legate a quei pezzi di carta definiti “permessi di soggiorno” sembrano avere l’unico scopo di rendere la vita dei migranti un inferno. Daniele Gaglianone, regista rigoroso a cui riconosciamo la dote, rarissima nel nostro Paese, di provare a fare un cinema di senso, si immerge nella materia con passione civile e impulisvità, tanto che il suo film inevitabilmente finisce in una terra di nessuno. Proprio come i migranti.
Figlio di nessuno
Paradossalmente, però, però, a restare fuori dalla classe è il cinema. E proprio a causa dell’approccio genuinamente politico e sinceramente didascalico di Gaglianone, che ci porta nel set, dietro il set, davanti al set, ci apre tutte le porte, ci confonde: non siamo più in grado di percepire il limite tra realtà documentale e finzione filmica, con risultati disturbanti, purtroppo, più che perturbanti.
Le intenzioni tuttavia restano sincere, distanti dal moralismo d’accatto e dai lauraboldrinismi che affliggono il nostro cinema autoriale. No, Daniele ci mette corpo e anima, e la sua lotta, contro le logiche politiche della distribuzione dei film in sala è anche la nostra. I suoi riferimenti, emersi nel corso del consueto dibattito con gli spettatori, sono il pluripremiato La Classe (Entre Les Murs) di Cantet, e addirittura lo sceneggiato post-neorealistico Diario di un Maestro di Vittorio De Seta, anch’esso al confine tra fiction e documentario.
Caro Maestro
Nel contesto avantrealistico dell’opera, brilla come al solito Valerio Mastandrea, che recita il ruolo di maestro di Italiano. La sua è una prova di umanità ineccepibile e recitazione misurata, e si inserisce in maniera naturale nella (volutamente) incerta materia filmica realizzata da Gaglianone.
L’aspetto frustrante per noi spettatori consapevoli riguarda l’amara certezza che questo film sarà apprezzato da un numero bassissimo di persone, e si tratterà esclusivamente di persone GIA’ sensibili alla materia. Tutti gli altri si addormenteranno, perchè manca il racconto, e così la storia non riesce a diventare Storia.
La recensione della giuria dei giovani
di Davide Reno IV A Scientifico
Daniele Gaglianone ci propone La mia classe, facendoci tuffare nella complicata questione dell’immigrazione. La trama scialba e banale diventa facile strumento per surrogare concetti, convinzioni e schemi mentali contorti, trasformando quella che poteva essere una buona idea in un film perbenista e non all’altezza delle aspettative. La narrazione anela costantemente alla realtà a tutti i costi, per poi scadere in errori banali (IMPS?), al limite dell’assurdo (i discutibili metodi d’insegnamento e la malattia di Mastandrea) e della legalità (l’incontro dell’egiziano con la polizia, il professore che chiude un occhio sul suo permesso di soggiorno).
La compulsiva (sebbene nobile) ricerca dell’evasione dagli stereotipi è uno stereotipo. Paradossalmente, l’unico evento degno di nota e che rispecchi a fondo la vera abilità del regista è accaduto prima delle riprese, ed è poi stato inserito nel film con la trovata tutta pirandelliana del metateatro. Un quadro nel complesso insufficiente.
Recuiem
Come da tradizione, la visione è stata preceduta da un cortometraggio. Anzi, da un mortometraggio. Valentina Carnelutti ha scritto e diretto questa inutile noiosa e fastidiosa dichiarazione d’amore per i figli: venti minuti interminabili che provano a mettere in scena la domanda che si fanno tutte le mamme: “cosa succede ai miei figli se muoio?”.
Attori inguardabili, esclusi i bimbi perchè son bimbi. Girotondo sconcertante ed irritante, fotografia perfetta del cinema che in Italia si produce nel 2014. Ovviamente premiato al Torino Film Festival 2013.