Uno dei fatti di cronaca che ha rappresentato l’America capitalista di Ronald Reagan, immersa in quella guerra fredda che ha saputo tingersi coi colori dissacratori della farsa propagandistica di una nazione che non si vuole concedere sbagli. Il regista Doug Liman, reduce dai titoli elargiti in The Bourne Identity e Mr. & Mrs. Smith, torna a dirigere Tom Cruise (visto nel recente La Mummia, 2017) in un biopic dai toni brillanti della commedia. Tutto questo è ‘Barry Seal-Una storia americana’, uscito nelle sale italiane il 14 settembre.
Barry Seal-Una storia americana
Tom Cruise sembra avere un debole per i film di denuncia. Con Oliver Stone aveva saputo immedesimarsi nel reduce Ron Kovic, in quel Vietnam che ha fagocitato decine di pellicole “sparate a denti stretti”. Oggi, rivalutato da una seconda giovinezza che non sembra affievolire la sua immagine di attore, riesce a stupire con una cronaca amara che arride a quella satira che solo i registi più scaltri riescono a rappresentare. Se con ‘Snowden’ si era arrivati a quel taglio documentaristico che tanto piace alla critica che nulla lascia al caso, oggi il regista Doug Liman ci delizia con una storia fatta per essere demolita da quella morale che parla a giochi fatti. La storia del pilota della Trans World Airlines, Barry Seal, prestato alla CIA da un accomodante agente Monty Schafer (Domhnall Gleeson), per diventare uno dei contrabbandieri di droga più racimola-soldi che la storia americana abbia potuto elargire, senza scalfire una bandiera a stelle e strisce che riesce a confondere i propri colori di facile patriottismo.
Arrivismo e superficialità sembrano trasudare da quel taglio humour sapientemente dosato dal regista, anche quando la storia scritta da Pablo Escobar non ha nulla di divertente. Immerso in quella foresta di narcotrafficanti bollata come il cartello di Medellin, la verve del protagonista sembra far emergere i lati oscuri che ogni uomo medio sembra segretamente tenere per se. Non importa se i voli pindarici ai confini della Colombia e dell’America Centrale si distendono con la sregolatezza dei suoi stessi protagonisti. Quello che emerge è proprio il meccanismo di un sistema che riesce a generare quei conflitti tipici che ricadono nel terrorismo senza ritorno. Soldi facili che sfuggono dalle stesse mani di un Barry Seal che non si rende conto di quanto pericoloso possa diventare un gioco che è manovrato da povera gente e destinato a cadere, per mano di un governo che crea alleanze pronte a demolire ogni gioco illecito.
I valori della famiglia e dell’onestà si annullano, in quegli spostamenti continui nascosti dal bigottismo di periferia, nello stesso anagramma verbale voluto dalla CIA per confondere i propri servizi, passando dalla porta di servizio della Casa Bianca per finire nelle mani della DEA. Tutto sotto gli occhi di una moglie Lucy (Sarah Wright), complice inconsapevole di un uomo che ha “semplicemente” volato per mano del suo stesso governo, concedendosi il lusso di essere troppo accondiscendente verso i poli opposti dello spirito rivoluzionario nebulizzato dalla cocaina. Il regista Doug Liman ci ha impartito la lezione, avvalendosi di un montaggio caustico che non dispiace affatto. L’importante è arrivare al cuore della gente, anche se a farne le spese sono i suoi stessi protagonisti. Viva l’America!