Sudestival 2014: ‘Se chiudo gli occhi non sono più qui’ di Vittorio Moroni

Ultimo appuntamento con i film in concorso al Sudestival 2014. A chiudere il festival Se chiudo gli occhi non sono più qui di Vittorio Moroni.

Se chiudo gli occhi non sono più qui

di Gemma Centrone IIIA classico 

Coinvolgente, emozionante, intenso : Se chiudo gli occhi non sono più qui  di Vittorio Moroni è stato un ottimo film per concludere in bellezza l’edizione del SUDESTIVAL 2014. Kiko, un ragazzo italo-asiatico a cui è morto il padre vive con la madre e con il suo compagno Ennio (interpretato da Beppe Fiorello) che lo costringe a lavorare con lui come muratore nei cantieri edili. L’unico luogo in cui Kiko può essere se stesso è un pullman abbandonato in una discarica , arredato con tante foto del suo defunto padre. A stravolgergli la vita è un vecchio amico del padre, Ettore che lo sprona a studiare e a non rinunciare ad inseguire ciò che davvero vuole.  Ma solo con il finale di questo capolavoro si scoprirà la vera identità di Ettore…

Intervista al regista Vittorio Moroni

Film su un adolescente problematico o su un italiano di seconda generazione? Quanto è vero della prima e quanto della seconda interpretazione? Quanto di Kiko appartiene all’adolescente contemporaneo e quanto alla sua estrazione sociale e culturale?

Una delle intenzioni mie e del co-sceneggiatore Marco Piccarreda nel fare questo film è quella di raccontare un adolescente di origine filippina semplicemente come un adolescente. Rappresentare un ragazzo italiano con genitori stranieri non significa per forza dover fare un film sull’immigrazione, sull’integrazione o sulla diversità. I problemi fondamentali che ha Kiko potrebbe averli un coetaneo con entrambi i genitori italiani. Credo che la natura multiculturale del nostro Paese sia giunta ad un livello di evoluzione tale per cui i ragazzi di cosiddetta seconda generazione sono innanzitutto delle persone italiane (anche quando l’ingiusto dispositivo legislativo attuale non glielo consente) con la loro complessità e irriducibilità prima che dei testimonial del Paese d’origine dei genitori o del carico di problemi derivati. Detto questo, non c’è dubbio che possedere contemporaneamente due lingue, due tradizioni, due culture rappresenti un tratto importante della personalità di Kiko come di ogni personaggio ricco e multiforme.

Una scena del film

Cosa rappresenta Ettore? Il gap generazionale, il filosofo, la “voce interiore”? E come mai questa relazione forte con Leopardi?

Di Ettore non posso svelare molto, perché vorrei che il suo mistero accompagnasse gli spettatori fino ai titoli di coda. Quello che posso dire è che rappresenta per Kiko l’incontro più importante. E’ la speranza che compare nella sua vita ferita e al tempo stesso una grande destabilizzazione. Ettore è un maestro, ma un maestro che non ha simpatia nè soggezione per la scuola, per i voti, le promozioni, le pagelle. Ettore ha un’altra visione del sapere. Vede nella conoscenza una bellezza e un potere che possono salvare. A condizione di essere radicali, autentici. “Prima di sapere una cosa devi sapere perché la vuol sapere“. Ettore insegna a Kiko a sperare e dunque a lottare e dunque a tentare di appropriarsi del proprio destino.

Leopardi è uno degli incontri che Kiko ed Ettore fanno nella loro esplorazione. Un poeta e un filosofo capace di interrogarsi radicalmente sulla domanda fondamentale: perché siamo qui? La domanda a cui Kiko non sa dare risposta.

I protagonisti Beppe FIorello e Mark Manaloto

Parliamo un po’ del cast, come hai scelto i tuoi protagonisti e com’è andato con loro sul set? 

Mark Manaloto, il giovane protagonista, interprete di Kiko, è stato scelto tra centinaia di coetanei per la sua prossimità e somiglianza con alcuni aspetti del personaggio. Con lui abbiamo lavorato per 5 mesi prima delle riprese, addestrandolo a non fare nulla che non sentisse vero, dandogli la possibilità di modificare movimenti, battute, dinamiche purché gli corrispondessero. Questa lunga preparazione è stata fatta con Rosa Morelli, actors coach straordinaria che ha saputo stabilire con gli attori un rapporto intensissimo. Intorno a Kiko la camera a spalla si è mossa durante tutte le riprese restando disponibile ad essere sorpresa, spiazzata, sfidata dall’incertezza di ciò che poteva accadere. Per questo c’è un livello della messa in scena che cerca la realtà, che ammette sporcature nei movimenti di camera e nella messa a fuoco, che lascia filtrare la sensazione del pedinamento, della sorpresa, dell’imprevisto. Allo stesso modo abbiamo cercato e poi lavorato con l’esordiente Hazel Morillo, che intrepreta Marilou, la madre di Kiko e con i molti attori non professionisti.

Contemporaneamente abbiamo avuto la possibilità di lavorare con straodinari professionisti che hanno accettato di confrontarsi in questo modo col lavoro e con i propri personaggi: Giorgio Colangeli, Giuseppe Fiorello, Anita Kravos, Ivan Franek, Ignazio Oliva, Elena Arvigo…

I protagonisti Beppe FIorello e Mark Manaloto

In genere Beppe Fiorello ha sempre interpretato personaggi positivi ma anche machisti. Nel tuo film è più eroe o antieroe? E perché? 

Nel mio film Fiorello interpreta Ennio, un caporale. E’ una figura che gioca agli occhi di Kiko un ruolo negativo, è il principale antagonista, certamente un anti-eroe. Eppure ama Marilou, è pronto ad impegnarsi con lei. Sfrutta lavoratori immigrati e li costringe a vivere in condizioni pessime, eppure si sobbarca i debiti della compagna. L’intenzione era di riconoscere a questo personaggio, come a tutti i personaggi, un punto di vista. Sono certo che nella vita anche le persone che commettono errori, ingiustizie perseguano o comunque si raccontino una propria idea di giustizia. E che sia importante riconoscere loro sempre un tratto di umanità. Spero che verso Ennio si possa provare questa ambivalenza di sentimenti.

La scuola ha un ruolo importante nella storia. Come giudichi da esterno i docenti italiani alle prese con il difficile mondo di oggi?

Insegnare significa essere in contatto con studenti che hanno stimoli, preoccupazioni e sollecitazioni infinite. Significa fare un lavoro faticoso senza essere incoraggiati o sostenuti da nessuno. Retribuiti male e ostacolati da tutto, a partire dalle statistiche sulla meritocrazia nel mercato del lavoro.

Eppure, per scrivere la sceneggiatura sono stato ospite del Liceo Scientifico Tullio Levi Civita nella periferia di Roma. Mi sono seduto tra i banchi e ho fatto lo studente. Ho ascoltato le lezioni, ho preso appunti, ho osservato insegnanti e alunni. Poi ho intervistato i ragazzi di 3 classi e ho chiesto loro quale ritenessero essere il rapporto tra la scuola e il loro futuro. Il 90%mi ha risposto, sorprendendomi: “decisivo”: il futuro dipenderà in gran parte dalla scuola.

Mi sono convinto che esistono, nella scuola italiana, professori preparatissimi, caparbi, persone che lavorano con entusiasmo controvento (un po’ li ho ammirati, un po’ invidiati). Quello che mi sembra davvero difficile nella scuola italiana, eppure necessario, è immaginare e praticare un’educazione che parta dagli studenti, che sappia mettere in secondo piano i protocolli ministeriali e un’idea nozionistica di sapere, per correre il rischio della semina, della provocazione e dell’ascolto; una scuola che umilmente riconosca il fatto che non esiste altra strada alla vera educazione che quella di favorire un processo vivo di autoeducazione. 

Questo film è la tua opera seconda. Cosa ti aspetta ora? Già pronto un nuovo lungometraggio nel cassetto?

Il cassetto è pieno di storie completate o abbozzate. Ma in questo momento sento il bisogno di esplorare, scrivere, di fare ricerca. Se ci sarà da fare un nuovo film da regista sarà “lui” a chiamarmi e a togliermi il sonno.

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