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Cesare deve morire: la bellezza sorprendente della prigione

Il sottotitolo perfetto per l’ultimo film dei Taviani, premiato a Berlino con l’Orso d’oro, dopo ventuno anni di latitanza italiana dal gradino più alto del podio berlinese, sembra essere “Bruto deve decidere”.

Il teatro dentro i cancelli di Rebibbia

di Vera Santillo

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Bruto e insieme a lui gli altri congiurati, che si trovano di fronte alla scelta dolorosa di tradire un compagno o la propria patria.

La storia, quella dei fatti e quella shakespeariana, è nota.

E in questo film è sapientemente sviscerata nella sua sostanza più vera.

Il dubbio, il dolore, la lacerazione interiore che consumano l’animo umano quando è necessario sacrificare una vita in nome della libertà. Una libertà che chiede il suo prezzo.

Questo prezzo, i detenuti che interpretano la pièce shakespeariana messa in scena da Fabio Cavalli che da dieci anni porta il teatro dentro i cancelli di Rebibbia, lo conoscono bene.

È attraverso i loro volti segnati, le loro voci vive capaci di grida rabbiose e di toni miti, i loro corpi veri che la tragedia della libertà e del sangue che deve essere versato affinché essa possa prevalere, si compie.

Ma non è tanto l’ideale metafisico a venir fuori in quest’opera, quanto piuttosto la solitudine umana di un Bruto che si trova a combattere da solo con la voce delle proprie incertezze, col ricatto del proprio legame affettivo col dittatore, e la meschinità nella quale è facile cadere anche nelle battaglie più nobili.

Vengono fuori le storie personali

Viene da chiedersi chissà quante volte questi uomini che si sono sporcati le mani con delitti di mafia e di camorra, si siano trovati a fare i conti con le stesse domande, con la propria immagine riflessa allo specchio.

Ed ecco che così vengono fuori, ma appena accennate, le storie personali di alcuni di loro che emergono, come i ricordi proustiani con la madeleine, attraverso la verità che soggiace ad ogni vera opera d’arte.

Ascoltiamo con partecipazione ed emozione profonde il racconto di Salvatore Striano, uno straziante Bruto, quando durante le prove si rifiuta di proseguire, perché le parole di Shakespeare gli fanno male, lo hanno ricondotto con la mente a un episodio del suo passato, a un amico che lui ha deriso.

Ecco, questo avvenimento di molti anni prima, Salvatore sembra comprenderlo per la prima volta. Solo attraverso quelle parole scritte cinque secoli addietro e pronunciate da un personaggio fittizio, può capire ciò che ha provato l’amico, la sua esitazione scambiata per codardia e vergognarsi per averlo disprezzato.

Ecco, allora, che la sostanza dell’arte, intesa come specchio della vita e del mondo attraverso il quale poterli comprendere, emerge in tutta la sua sfolgorante verità. Allo stesso tempo, sono i detenuti stessi, il loro passato fatto di azioni violente e vili, di pentimenti, di congiure e di tradimenti a conferire valore di realtà, di vita vera, a rendere Arcuri, Fabi onore al testo shakespeariano, a donargli la sua completa e più alta realizzazione.

Una verità reiterata nel film attraverso l’uso del bianco e nero, del contrasto di luce e di oscurità che ci guida attraverso gli scorci, tutti di una sorprendente liricità e di una bellezza quasi fuori luogo, della prigione. La verità della parola scritta e vecchia di secoli che si fa carne viva attraverso gli idiomi dialettali (napoletano, siciliano, romanesco) degli attori.

L’intervista esclusiva a Paolo Taviani

Ecco l’intervista di Antonella Molinaro, in esclusiva per cinemio, al regista Paolo Taviani

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