L’arte della fuga, film uscito in Francia ormai più di 3 anni fa, nel 2015, esce – infine – nelle sale italiane a partire dal 31 maggio. Liberamente ispirato dal romanzo di Stephen McCauley, “The Easy Way-Out”, è stato co-sceneggiato dallo stesso regista, Brice Cauvin, da Raphaëlle Valbrune-Desplechin e da Agnès Jaoui, che vi interpreta anche il ruolo di Ariel, l’amica di uno dei protagonisti.
Tra gli altri interpreti, vanno ricordati nei ruoli principali, dei tre fratelli, Laurent Lafitte (Antoine), Benjamin Biolay (Gérard) e Nicolas Bedos (Louis, il più giovane).
L’arte della fuga
Che si sia immersi nel bel mezzo di una crisi, lo si capisce da subito, vedendo Antoine, il fratello nato in posizione “centrale” (e, guarda il caso, “centro” effettivo della famiglia) piangere in bicicletta ad inizio film. Lui, apparentemente quello nella situazione più stabile del gruppo, insieme da 10 anni ad Adar (Bruno Putzulu) e sul punto di comprare con lui una casa, è in realtà in preda a ripensamenti e tentennamenti vari, per buona parte a causa del fascino di Alexis (Arthur Igual), tenebroso ed irrequieto – nonché più giovane ed aitante – artista. Ma forse la verità che non vuole vedere è che la sua storia con Adar è finita e si sta ormai protraendo per inerzia, senza che nessuno dei due abbia il coraggio di troncarla.
Suo fratello maggiore, Gérard, non vuole invece accettarne un’altra, di verità: quella della fine del suo matrimonio, e si trascina in una depressione cronica, senza un lavoro, ad elemosinare l’ospitalità dei suoi genitori, che lo prendono anche a badare alla contabilità del loro negozio, giusto per dargli un’occupazione.
Il fratello più piccolo, Louis, anche lui fugge a suo modo, portando avanti un fidanzamento solo per compiacere i suoi genitori, innamorati molto più di lui della sua dolce metà (Julie), mentre lui il vero amore l’ha trovato in un’altra donna (Mathilde), in un’altra città (Bruxelles). E, pur di non deludere le aspettative di nessuno – o semplicemente per paura di affrontare la situazione – si divide in questa doppia vita, fatta di andate e ritorno in treno da Parigi a Bruxelles, di preparativi per un matrimonio che forse non si farà mai, di non-detti e di bugie con tutti, a parte i fratelli.
A chiudere questo circolo familiare già di per sé non estremamente sano, un padre mai contento, che ha sempre una “buona parola” per tutti, in particolare i suoi figli (che sono “fortunati” ad avere trovato i compagni o le compagne che hanno, che decisamente non meritano e che dovrebbero baciare dove camminano visto che hanno avuto il buon cuore di prenderseli; che fanno dei regali sempre pessimi, a differenza dei loro rispettivi – ed immeritati – partner; che sono sempre, in un modo o nell’altro, “sbagliati” o non all’altezza, giusto per infondergli un po’ di salutare dose di amore e fiducia paterna). Ed una madre lievemente asfissiante, neanche lei in alcun modo prodiga di giudizi positivi nei confronti dei figli, che chiama incessantemente Antoine sul lavoro facendosi passare per chiunque altro (ad esempio, Madame Givenchy, od ogni altro improbabile nome di stilista o chicchessia le venga in mente), col solo scopo di parlargli – il più delle volte, male – dei suoi fratelli o di ciò che sta cercando di fare lui.
Perché quello che cerca di fare Antoine, per buona parte del film, è di far aprire gli occhi agli altri: al fratello minore, che deve lasciare la fidanzata Julie e stare ufficialmente con l’amante, Mathilde; al fratello maggiore, che deve accettare che il suo matrimonio sia finito e rimettersi a lavorare; ai suoi genitori, che devono smettere di spingere uno dei suoi fratelli a sposarsi chi non vuole solo perché a loro piace e l’altro a strascinarsi per casa piangendosi addosso senza voltar pagina. Il problema di Antoine (oltre, vabbè, al fatto che nessuno lo ascolta) è che probabilmente lui si dà tutto questo daffare per aprire gli occhi altrui solo per poter più facilmente continuare a tenere chiusi i suoi, di occhi. Sulla sua, di situazione. Su ciò che lui non vuole vedere.
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L’arte di raccontarsela in ambito familiare
L’arte della fuga descrive un’abilità in cui molte famiglie sono maestre: quella di non dirsi mai come stanno realmente le cose, spesso per paura di deludere le attese degli altri, ma forse ancora più spesso per comodità, pigrizia, quieto vivere, mancanza di coraggio. In poche parole, perché fuggire la realtà pare di norma più semplice che affrontarla.
La famiglia dipinta da Brice Cauvin ha, come tante famiglie disfunzionali, un suo equilibrio instabile, fondato sul mantenere le apparenze e lo status quo. La triade dei fratelli ha una sua simmetria, in cui l’ago della bilancia è giusto il fratello di mezzo, Antoine: da una parte il maggiore, fallito nel lavoro, abbandonato dalla moglie, compatito dai genitori come la pecora nera che ogni famiglia deve avere e tollerare; dall’altra il minore, dal lavoro brillante e di successo, amato dalla ragazza perfetta, bella, bionda, gentile, e da tutte le altre donne, orgoglio di mammà e papà, quantomeno fintanto che si attiene a recitare la sua parte.
In mezzo, appunto, il fratello di mezzo, Antoine: che ha un lavoro che gli piace, ma non poi così brillante (e che si è licenziato dal precedente, pure se la madre continua a sostenere sia stato licenziato); che ha una coppia stabile da anni, però con un uomo; che dovrebbe rappresentare quello su cui tutti, in particolare i genitori, possono sempre contare ed invece tenta costantemente per far crollare il loro equilibrio precario mettendo tutti di fronte a realtà e verità che nessuno vuole guardare.
L’argomento trattato è agrodolce, anche se spesso ci sono battute che strappano il sorriso. Nonostante tentino per tutto il film di evitare il cambiamento, alla fine il cambiamento arriva, anche se nessuno forse davvero voleva vederlo arrivare. E resta fermo maggiormente quello che si pensava fosse più, anche fisicamente, in movimento. E si muove e davvero cambia quello che, invece, pareva completamente bloccato. Mentre il centro, che è sempre Antoine, trova un nuovo modo, più letterale, di fuggire.
Bilancio finale de L’arte della Fuga
Nel complesso senza lode e senza infamia, L’arte della Fuga. Non si grida al miracolo né all’originalità, anche se qualche dialogo e alcuni tra gli attori (in particolare, la sempre brillante Agnès Jaoui, Laurent Lafitte e Benjamin Biolay) risultano particolarmente gradevoli. Il film scorre in modo piuttosto semplice, anche se forse più da serata nel salotto di casa che al cinema. La conclusione in particolare lascia l’impressione del già visto e del non fino in fondo riuscito, pur senza irritare come alcuni film francesi sanno fare. Tasto dolente, come spesso capita, il doppiaggio, riuscito meno ancora del solito.
30L’arte della Fuga – Serata con amiciVa bene per una serata tranquilla con gli amici, in cui si ha voglia di tirarsi su e pensare che alla fine la propria famiglia non è poi messa così male (o, nel caso, che alla fine non è la sola ad esserlo).
Molto utile e ben fatto