“Crossing the Bridge”: com’è il sound di Istanbul?

La scorsa settimana la nostra Flavia si è occupata di Soul Kitchen (2009), ottima commedia vincitrice del Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia 2009, diretta dall’ispirato regista turco-tedesco Fatih Akin.

Mi è parso allora opportuno riportare alla memoria, o più probabilmente portare a conoscenza, un suo film-documentario del 2005, ingiustamente passato inosservato in Italia: Crossing the Bridge – The Sound of Istanbul.

Istanbul, un ponte sul Bosforo

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La pellicola documenta il viaggio musicale del tedesco Alexander Hacke, bassista della band d’avanguardia Einsturzende Neubauten (che ha lavorato per la colonna sonora di un altro film di Akin, La Sposa Turca del 2004), attraverso quella città dai volti così molteplici che è Istanbul.

Eterno ponte tra l’Oriente e l’Occidente, la capitale turca viene esplorata con grande sensibilità, mettendo a nudo i suoi aspetti tanto contrari quanto armonizzati tra loro.

Alexander percorre le strade colme di colori, di sensazioni, di rumori; si immerge in una realtà incomprensibile sia all’occhio occidentale che a quello orientale.

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Perchè Istanbul è un’affascinante “via di mezzo” tra le due culture: e Hacke-Akin riesce a rendere in modo sorprendente tale concetto, trasportandoci dai generi musicali più moderni, come il rock neopsichedelico dei Baba Zula, a quelli più tradizionali suonati dal virtuoso clarinettista zingaro Selim Sesler.

Le libertà conquistate

All’interno di questa eterogenea armonia di suoni, emergono in maniera molto fine le conquiste della Turchia odierna: alle proteste politiche del rap di Ceza, vi partecipa anche la sorella Ayben, rompendo così il comune senso unico maschile di questo tipo di musica.

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Non solo. La sublime cantante curda Aynur può ora esibirsi nella propria lingua, fino a dieci anni prima proibita.

E gli stessi generi musicali arrivati dall’Occidente denotano un’apertura di questo paese, un movimento che abbraccia numerose e diverse emozioni.

L’unione tra passato e presente

Ma Fatih Akin mostra, grazie alla musica, anche un’altra importantissima fusione: quella tra il passato e il presente, tra il moderno e la tradizione.

Ecco allora che le band ed i musicisti di nuova generazione uniscono i suoni della musica popolare turca a quelli digitali ed elettronici degli ultimi tempi: Mercan Dede, musicista derviscio (membro cioè di una confraternita mendicante musulmana) tra i più affermati, elabora con strumenti digitali la musica tradizionale.

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Il musicista di saz Orhan Gencebay

Alle nuove frontiere melodiche vengono affiancate le figure del passato artistico della città, anche attraverso vecchie immagini di repertorio: tornano idoli come Orhan Gencebay, suonatore di saz o chitarra saracena (un liuto a manico lungo, usato per il genere popolare del türkü) soprannominato “Elvis of Arabesque music“.

O come l’ottantaseienne Müzeyyen Senar, diva degli anni ’30 di Atatürk.

Il viaggio in un mondo circolare e continuo

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Istanbul, con le sue mille sfumature, i suoi legami solo all’apparenza impossibili tra una parte e l’altra del ponte, si configura come un cerchio, come un mondo in continuo scambio con sé stesso.

I passaggi tra generi musicali diversi, da un quartiere ad un altro, sono i riflessi del percorso conoscitivo che Akin ha voluto realizzare: anche le interviste agli artisti, alternate fra loro in un discorso che diviene circolare, esprimono in modo molto coerente il senso puro del viaggio, il contatto tra differenti culture.

E lo stesso Alexander, alla fine (o all’inizio?) del suo cammino sente la musica e l’anima turca come proprie.

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È probabilmente l’eterna ricerca delle proprie origini da parte dello stesso regista, sempre in bilico tra un’identità occidentale ed una orientale.

Una condizione che ritroviamo, tra l’altro, in ogni film di Fatih, a partire dal primo lungometraggio Kurz und Schmerzlos (1997).

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Il regista Fatih Akin

Il finale affascinante, un regista degno

Un finale squisitamente poetico, con le immagini del tramonto sul Bosforo a fare da sottofondo alla suggestiva melodia della cantante folk canadese (ancora a sottolineare la commistione delle culture) Brenna Maccrimmon.

Si può ben dire che il film sia erede diretto di quel Buena Vista Social Club (1998) che, grazie alla maestria di Wim Wenders, ci aveva avvicinati alla realtà [musicale] cubana.

E se avete visto (ma bisogna vederlo) Soul Kitchen, sapete che Fatih Akin non è solo un buon regista, ma possiede pure un ottimo gusto in materia musicale.

Lo dimostra, a mio parere, anche la scelta del brano per gli originali ed interattivi titoli di coda: fusione di realtà diverse, fino alla fine.

4 Comments

  1. Massimo Balducci
  2. Alice Muratore

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