Continuiamo la carrellata dei cortometraggi in concorso al BIF&ST con Pizzangrillo di Marco Gianfreda, che ha partecipato con successo a numerosi festival nazionali ed internazionali.
Marco Gianfreda, classe 1974, dopo essersi laureato in Filosofia Teoretica ha frequentato scuole di scrittura creativa e sceneggiatura incontrando docenti come Age, Suso Cecchi D’Amico, Mario Monicelli, Andrea Camilleri, Domenico Starnone e Dacia Maraini. Del 2006 è il suo primo cortometraggio Tana libera tutti, di cui è autore del soggetto e sceneggiatore, mentre nel 2009 dirige Io parlo!, anche questo da lui sceneggiato. Entrambi i corti hanno partecipato e vinto a numerosi Festival nazionali ed internazionali. Pizzangrillo è il suo ultimo cortometraggio che è stato selezionat0 da 150 festival, ed ha attualmente ottenuto 65 riconoscimenti in tutto il mondo ed è stato acquistato e trasmesso dal canale Studio Universal per un anno.
Pizzangrillo
Pizzangrillo racconta il rapporto di Ettore (Toni Bertorelli) che, stanco della vita, cerca ogni giorno il coraggio di buttarsi con la sua vecchia Ape in un fosso di campagna e di suo nipote Luca (Simone Pellegrino) che, dopo aver scoprerto il suo proposito, decide di seguirlo riuscendo a fargli cambiare idea.
In poco più di 15 minuti Marco Gianfreda riesce a raccontare, con delicatezza e maestria, il tema della depressione e dell’amore di un nipote verso il proprio nonno. Splendida la fotografia, che mostra al pubblico scorci paesaggistici molto poetici, al cui interno si muovono i protagonisti dei quali non si possono non sottolineare le straordinarie interpretazioni, in particolare del piccolo Simone Pellegrino, per la prima volta davanti alla macchina da presa.
Intervista al regista
Ciao Marco benvenuto su cinemio. Di Pizzangrillo sei regista e sceneggiatore. Come sei arrivato all’idea del corto?
Sono varie le suggestioni che mi hanno spinto a raccontare la storia di Pizzangrillo. Quando mi metto a scrivere una storia il bisogno è sempre molto personale, prima di tutto è la voglia di raccontare una storia a me stesso, la voglia di darmi l’illusione di averla vissuta. Illusione proprio perché in realtà se pure mi capitasse o mi ci trovassi in mezzo non sarei in grado di viverla. Sono un vigliacco che si finge forte e coraggioso nelle storie. Tutto nasce da questo. Dalla voglia di essere meglio di quello che sono.
Mi piacciono i personaggi che hanno una vita semplice e ordinaria, ma che nel corso della storia vengono chiamati a compiere imprese eroiche. Non combattimenti contro i draghi o contro le forze della natura, ma qualcosa che esca, anche di poco, dall’ordinarietà della loro vita. Come ad esempio quello che fa Luca, il ragazzino di Pizzangrillo, a cui la storia chiede di andare incontro a una scoperta drammatica, e poi di andare ad esplorare cosa c’è oltre il canneto che delimita il fosso, e poi ancora di sforzarsi di credere a una bugia per restare ancora per un po’ bambino. O quello che fa Ettore, il nonno, a cui viene chiesto dapprima di riuscire a mantenere un segreto incoffessabile, poi di inventare una bugia credibile, infine di provare a pensare che la vita è ancora bella. Imprese eroiche appunto.
Uno fra gli spunti più forti è stato il mio grande interesse e passione per la bugia. La bugia è un fatto umano pieno di mistero che mi affascina moltissimo. L’idea per esempio che non esista niente – a parte la macchina della verità dei film di James Bond o i filtri magici dei film mitologici – che ci possa far indagare con certezza la consistenza di una verità dichiarata, non so, da un nostro amore, o da un possibile assassino, o da un ragazzino che afferma di non aver rubato la cioccolata, la trovo una cosa molto affascinante, oltreché di grande peso drammaturgico nei racconti. Perciò spesso mi trovo ad appassionarmi di storie che hanno al centro una bugia.
I personaggi che fin’ora mi sono trovato a raccontare non fanno altro che mentire. La ragione credo risieda nel fatto che fin da ragazzino dire bugie mi ha sempre procurato un po’ d’imbarazzo, ma non perché ero puro e candido, o moralmente integro, tutt’altro! Semplicemente non ero capace a dirle. Quindi, una feroce invidia che ora compenso producendo schiere, frotte, eserciti di personaggi bugiardi.
La bugia per me ha anche quest’altra faccia: certamente i bugiardi ci stanno antipatici e ci rovinano l’esistenza, tuttavia, in certi casi la bugia può rappresentare una disperata e infantile forma di creatività allo scopo di rendere le cose della vita più belle di quelle che a volte possono essere. Tratto anche questo dai toni eroici. Proprio quello che fa nonno Ettore. Lui non può rivelare a Luca la verità. La cosa che non avrebbe mai immaginato è di riuscire a dirla così bene questa bugia, tanto da finire anche lui per crederci un po’.
Infine, la storia di Pizzangrillo è tratta da uno spunto di realtà. Avevo un nonno con la assurda velleità di buttarsi al fosso con tutta la sua Apetta. Cosa che ho scoperto intorno ai dieci anni. La differenza fra me e il ragazzino protagonista del mio corto è che io non ho avuto il coraggio di fargliela la domanda a mio nonno “Ma quando il giorno esci con l’Apetta, dove vai nonno?”, mentre lui sì. Questo corto mi è servito a fare una domanda che mi era rimasta qui.
Come sei arrivato alla scelta dei protagonisti e com’è stato lavorare con loro? In particolare come hai impostato il rapporto con il piccolo, ma molto bravo, protagonista?
La scelta degli attori è tutto. Anche stavolta come negli altri lavori ho potuto contare sulla collaborazione di Cristina Raffaeli, casting director esperta e sensibile alle mie idee. Toni Bertorelli è stata una scelta immediata. Sia Cristina che io ci eravamo appassionati al personaggio del Conte Bulla nell’Ora di religione di Marco Bellocchio. Il resto, ovvero l’essenziale, lo ha fatto Toni, accettando di lavorare a un cortometraggio che sarebbe stato assai impegnativo per lui, comprese delle lievi scene d’azione alla guida di una Apetta piaggio piuttosto malandata.
L’entusiasmo di Bertorelli è stato un tassello importante che ha incoraggiato tutti, per primo me. Ero impaziente di vederlo all’opera in scena. Per quello che riguarda i piccoli protagonisti, abbiamo fatto molti provini, cercando ragazzini alla prima esperienza e che non fossero stati contaminati troppo dalla voglia di apparire. Alessio Spagnoli e Daniele Faraoni sono emersi abbastanza presto dal gruppo, soprattutto per il felice impatto che la loro relazione fisica ha fatto ai nostri occhi.
Con Simone Pellegrino le cose sono andate diversamente. Un vero colpo di fortuna! In uno dei miei infiniti sopralluoghi per i fossi e i campi di tutto il Lazio – giornate avventurose nelle quali mi sono corse appresso tutte le razze di cani esistenti in natura – mi perdo dalle parti di Acilia. Sto per tornare sulla strada principale quando vedo piccoli piccoli all’orizzonte dei ragazzini che giocano a pallone alla fine di un lungo stradone. Ci penso, infine vado. Tra questi c’era Simone Pellegrino. Chiedo: “Stavo cercando un fosso da queste parti, sapete dove lo posso trovare?”… Risposta dei ragazzini: “Perché che te ce vuoi butta’?”… “Non mi ci voglio buttare io, ma un personaggio di un film che devo fare”… e loro: “Fico!”. Poi punto Simone che mi aveva colpito subito e gli chiedo: “Ma lo vorresti fare tu questo film?”. E lui: “Vabbé”.
Così è andata. Le poche prove con tutti e tre sono state divertenti: giocando a pallone in una villa comunale. Mezz’ora di battute e movimenti di scena e mezz’ora di partitella. Tutto liscio e spassoso.
Termina qui la prima parte dell’intervista a Marco Gianfreda. Continua a leggere la seconda parte.