Ritrovo con piacere nella mia rubrica dei registi emergenti, Carlo Michele Schirinzi, che in questo articolo ci parla del suo nuovo cortometraggio Eco da luogo colpito presentato anche all’ultima Mostra del cinema di Venezia.
Eco da luogo colpito
Un gruppo di ragazzi entra all’interno dell’edificio dall’A.C.A.I.T (Azienda Cooperativa Agricola Industriale del Capo di Leuca), industria di tabacchi storica di Tricase che ha dato lavoro a molte famiglie e che è stata chiusa negli anni ’90 a causa della crisi del settore.
Schirinzi segue, quasi furtivamente, i passi dei giovani che si avventurano nell’edificio, guardando, ascoltando, scoprendo l’anima dell’edificio che trasuda ancora del lavoro degli operai, della loro vita passata tra quelle mura. Ancora una volta, come per Mammaliturchi! nessuna parola ma solo suoni, sapientemente orchestrati da Stefano Urkuma De Santis.
Uno straordinario cortometraggio, realizzato da studenti di liceo con un progetto P.O.N., che riesce a trasportare lo spettatore nella Storia, quella con la S maiuscola, quella della vita di tutti i giorni che anche delle mura riescono a raccontare.
Le domande al regista
Nella scheda del film ho letto che il soggetto è degli allievi del corso. Puoi raccontarmi più nel dettaglio com’è nata e com’è stata sviluppata l’idea del film?
Il progetto P.O.N. “Cinema e Culture”, prosecuzione del corso dell’anno scolastico precedente in cui abbiamo studiato il linguaggio cinematografico ed esaminato il rapporto tra cinema e filosofia, aveva come fine la realizzazione di un film su un luogo di Tricase (Le).
Dopo aver visitato diverse locations abbiamo scelto l’A.C.A.I.T., ex tabacchificio tra i più importanti e longevi della regione (fondato nel 1902 e chiuso negli anni ’90) che, oltre all’enorme produzione e al gran numero di gente locale impiegata, promosse iniziative importanti come i premi di nuzialità (1921), la creazione di un ambulatorio medico-chirurgico e l’apertura di un asilo nido per i figli delle tabacchine impiegate (1938).
L’A.C.A.I.T. è nei cuori degli abitanti di questa città anche per un evento drammatico accaduto il 15 maggio del 1935: durante la manifestazione contro il volere del Ministero delle Corporazioni di chiudere l’opificio per accorparlo a quello di Lecce, cinque operai innocenti furono uccisi dalle forze dell’ordine.
Il film è stato realizzato da alcuni studenti di liceo con un progetto P.O.N. Com’è stata questa esperienza di lavoro con i ragazzi?
Lavoro in questi progetti da sette anni circa e ogni volta è una sorpresa non sempre positiva perché il rapporto tra diverse generazioni diventa sempre più complesso per il modo differente di scandire e percepire il tempo; spesso inoltre, bisogna patteggiare con i desideri cinematografici repressi di insegnanti e presidi che, incuranti della grammatica cinematografica, chiedono di realizzare il ‘filmino della recita’ e, solo per convincerli che è fondamentale un’infarinatura sul linguaggio e sulla tecnica, perdi metà del tempo a disposizione!
Questa volta però, con il Liceo Scientifico e Classico “Stampacchia” di Tricase, le cose sono andate diversamente e Venezia lo ha dimostrato, grazie anche all’apertura mentale ed alla caparbietà della prof.ssa Irene Turco, tutor del progetto.
All’inizio c’è stata un’incomprensione con i ragazzi perché avevo vietato categoricamente l’utilizzo dei dialoghi (un ordine percepito come tale), ma dopo aver spiegato che con i mezzi a disposizione non potevamo ‘imitare’ le fiction televisive altrimenti avremmo dato vita all’ennesimo film scolastico mediocre, tutto si è risolto nel migliore dei modi ed abbiamo lavorato in gran sintonia.
Ognuno ha scelto di ricoprire il ruolo professionale che più lo stimolava (attore, costumista, truccatore, fotografo del backstage, segretaria di edizione…).
Come per Mammaliturchi! il punto di partenza è un luogo abbandonato nel quale però si sente ancora la presenza umana. Cosa ti attrae di più di questo tipo di luoghi?
Il film doveva essere altro forse, ma una volta attraversato l’uscio dell’enorme portone ligneo di quest’architettura siamo rimasti a bocca aperta, colpiti dalla bellezza delle macerie, accecati dai colori secchi e dai toni autunnali che hanno portato alla mente “Luogo colpito” di Paul Klee (il titolo infatti è un omaggio a questa meravigliosa opera).
Non vorrei esser frainteso, il mio non è gusto retrò o feticismo estetico per la maceria: questa fascinazione va oltre il visivo, paradossalmente è un’attrazione legata all’ascolto, al sentire il rantolio, il gemito dell’attimo che precede l’ultimo respiro quando la vita inutilmente lotta di fronte all’eternità.
Non penso mai di trovarmi in un corpo morto, ma in un corpo morente, un corpo che sta graffiando sino a strapparsi le unghie, sta mordendo sino a sradicarsi i denti, è un momento fortemente erotico in cui i caldi vapori degli umori, della saliva, dell’urina, del sangue, della merda, dello sperma, si mescolano alla foga di sopravvivere. Questa è la sensazione che i relitti architettonici mi trasmettono.
Sono molto interessato al lavoro sul morire e non sulla morte: lo stadio in cui l’uomo lascia cadere tutte le sue impalcature costruite in secoli di civiltà e, sconfitto dalla forza della fine, ritorna animale.
Ancora una volta le musiche sono di Stefano Urkuma De Santis e ne sono una componente fondamentale. Su cosa avete puntato questa volta per costruirle? Rivolgiamo la domanda direttamente a Stefano.
Il modo in cui è stata strutturata la colonna sonora di Eco ha come punto di partenza il voler sfruttare le capacità di risonanza di ogni luogo e materiale. I ragazzi passano dal rumore dell’esterno allo sconosciuto mondo sonoro dell’interno del tabacchificio, che è un luogo vuoto e percorso da principio solo dalle note di un sassofono.
Il resto della colonna sonora è fatto da registrazioni ambientali di un frantoio a pieno regime e di alcuni strumenti autocostruiti. Tra questi si può ascoltare uno strumento fatto totalmente in pietra, che rende lo stridore e l’essenzialità di ciò che resta edificato senza più scopo.
In questi suoni a fare da trama vi è il continuo emergere ed affogare delle voci delle tabacchine intervistate dai ragazzi; una trama di voci volutamente incomprensibili, sommerse dalla impossibilità di far sopravvivere la memoria.
Il film è stato presentato nella sezione Controcampo a Venezia. Com’è andata questa esperienza?
Eco da luogo colpito è un film prodotto all’interno di un progetto scolastico con il solo (pochissimo) denaro della Comunità Europea e senza altri finanziamenti cinematografici: in 50 ore di corso abbiamo scritto, preparato, intervistato e girato tutto, la musica è stata composta ed eseguita da Stefano Urkuma De Santis mentre il montaggio è stato realizzato da Andrea Facchini nel suo studio. Questa è la necessaria premessa.
Il film è molto piaciuto a pubblico e critica e, lo stesso Marco Muller (direttore della Mostra) s’è molto complimentato per le capacità ‘attoriali’ dei ragazzi, a suo avviso molto credibili.
Pochi giorni fa hai terminato l’esperienza del Torino Film Festival. Com’è andata?
L’esperienza da giudice al Torino Film Festival è stata molto stimolante e il rapporto con gli altri due giurati (Yuri Ancarani e Alice Rohrwacher) positivo: Torino, ancora una volta, si è dimostrato il festival più coraggioso d’Italia, basta vedere il tipo di film selezionati nella sezione da noi giudicata, “Italiana.corti”, differenti da ciò che propinano gli altri festival.
Abbiamo sottolineato il coraggio in queste parole premesse ai premi: “Il Torino Film Festival nella sua tradizione è da sempre attento ai lavori di ricerca, e noi lo sosteniamo, ritenendo che la prima radice di questa ricerca sia il coraggio di scegliere, scavare l’immagine necessaria e prendere una posizione“.
So che stai lavorando al tuo primo lungometraggio. Vuoi parlarmene nei dettagli?
Ora no! Sarà una sorpresa incendiaria!
Ringrazio Carlo Michele Schirinzi per le risposte augurandomi di ritrovarlo presto all’interno della mia rubrica per parlare del suo primo lungometraggio.