Arriva il 25 giugno, mentre in Italia imperversa la polemica sul Ddl Zan, il documentario in sei puntate Pride, sulla storia della lotta per i diritti LGBTQ+ a partire dagli anni ’50 fino ai giorni nostri negli USA. Giusto a sottolineare quanto siano retrograde certe posizioni, arriva sul canale streaming per antonomasia dedicato alle famiglie, Disney+, e alle famiglie, oltre a tutti gli altri, dovrebbe rivolgersi e dovrebbe essere mostrato, che non è mai troppo presto per aprire gli occhi sulle inutili sofferenze che stupidi pregiudizi provocano alle persone.
Pride è realizzata da sei famosi registi (o meglio, sette, in un caso si tratta di una coppia), ognuno per ciascuno dei sei episodi da 45’: Tom Kalin, Andrew Ahn, Cheryl Dunye, Anthony Caronna e Alex Smith, Yance Ford e Ro Haber. La serie è prodotta da Killer Films, vincitrice di un Emmy Award (This American Life, Mildred Pierce) e da VICE Studios, premiata con il Sundance World Cinema Grand Jury Prize (Flee, The Report).
Pride
Incentrato sulla storia delle battaglie per il riconoscimento dei diritti LGBTQ+, Pride prende in esame per ogni episodio una decade, a partire dagli anni ’50.
Avremo quindi nell’episodio 1, diretto da Tom Kalin, e intitolato “Anni ‘50: La gente faceva le feste”, un focus da una parte sulla vita tranquilla e normale che era vissuta dagli appartenenti alla comunità LGBTQ+ e dall’altro all’inasprimento delle norme governative voluto dal celeberrimo senatore Joseph McCarthy, che ha inaugurato un’era di persecuzione.
Nell’episodio 2, diretto da Andrew Ahn e intitolato “Anni ‘60: Rivolte e rivoluzioni”, ci si concentra sullo status ancora più complicato e soggetto a emarginazioni delle ragazze queer afroamericane e delle donne trans.
L’episodio 3, diretto da Cheryl Dunye e intitolato “Anni ‘70: L’avanguardia della lotta”, è un resoconto più personale del regista, cui si intrecciano filmati d’archivio e interviste per mostrare come questi anni abbiano contribuito a forgiare un movimento nazionale, dalla prima marcia del Gay Pride, all’ascesa di artisti come la regista Barbara Hammer e la poetessa Audre Lorde, al confronto del femminismo intersezionale e al contraccolpo e all’opposizione della destra religiosa.
Arriviamo all’epoca reaganiana con l’episodio 4, diretto da Anthony Caronna e Alex Smith e intitolato “Anni ‘80: Underground”: l’afflusso di persone queer nel centro di Manhattan e l’ascesa della scena del ballo underground in una New York rinvigorita dalla rivoluzione sessuale della decade precedente e dalla nascita del Gay Liberation Front. Nel contempo, la tragedia dell’epidemia dell’AIDS e il mancato intervento di Reagan con la sua Moral Majority, organizzazione politica associata alla destra cristiana e al partito Repubblicano.
Nell’episodio 5, diretto da Yance Ford e intitolato “Anni ‘90: Le guerre culturali”, si rievoca la speranza, ben presto disillusa, apportata dall’elezione di Clinton, e gli scontri combattuti ovunque, da Capitol Hill ai cinema e alle chiese, che hanno profondamente marcato e diviso la comunità LGBTQ+ ma anche contribuito a creare politiche e organizzazioni che ancora oggi lottano per l’uguaglianza.
E infine l’ultimo episodio, diretto da Ro Haber e intitolato “Anni 2000: Y2gay”, che vede da una parte un aumento di visibilità e accettazione per i membri bianchi cisgender della comunità LGBTQ+, dall’altra una lotta ancora in corso per i diritti delle persone trans.
Stili differenti per una testimonianza toccante, da condividere
Pride è un resoconto importante, sincero, non edulcorato di una parte di quello che è stato il percorso travagliato di una serie di persone il cui unico scopo era farsi accettare per ciò che sono ed essere libere di amare chi amano. Un resoconto importante perché la maggior parte della gente probabilmente ignora tutto questo percorso, ignora l’ampiezza delle sofferenze, delle persecuzioni, delle battaglie che sono state necessarie – e che tuttora lo sono, basti pensare alla polemica attuale tra Vaticano e governo in Italia – affinché una parte considerevole della popolazione mondiale possa esprimere le proprie scelte sessuali e di genere senza essere emarginata, discriminata, bullizzata o perseguitata dall’altra.
La serie spazia dalla sorveglianza dell’FBI sulle persone omosessuali durante il Lavender Scare degli anni ’50 alla battaglia sull’uguaglianza matrimoniale in anni più recenti, facendo conoscere ai più figure centrali della lotta per i diritti LGBTQ+ che vanno dal pioniere dei diritti civili Bayard Rustin, allo scrittore Audre Lord e i senatori Tammy Baldwin e Lester Hunt, a Christine Jorgensen, Flawless Sabrina, Ceyenne Doroshow, Susan Stryker, Kate Bornstein, Dean Spade e Raquel Willis, a personaggi meno conosciuti come Madeleine Tress o il videografo degli anni ‘80 Nelson Sullivan.
Da un punto di vista strettamente stilistico, pur se tutti e sei gli episodi sono emozionanti e commoventi, sicuramente non sono tutti allo stesso livello e ugualmente riusciti. In particolare, stridono un po’ scelte, come nel primo, di docufiction, con l’impiego di un’attrice (Alia Shawkat) per la ricostruzione della testimonianza di Madeleine Tress, economista aziendale licenziata a causa del suo orientamento sessuale: forse per una sensibilità europea, ma i docufilm alla History Channel suonano un po’ falsi in un contesto estremamente veritiero come quello di Pride. Oppure nell’episodio sugli anni ’90, dove appartenenti alla comunità LGBTQ+ attuale recitano discorsi anti-discriminazione sulla falsariga di quello tenuto da Pat Buchanan nel 1992 alla Convenzione Nazionale Repubblicana: escamotage stilistico comprensibile, ma un filo banale.
Nel complesso, comunque, il patchwork di registi differenti tiene perché comune è l’ispirazione e la voglia di raccontare una propria verità. Il fine, evidente, è di farla conoscere in modo non nozionistico ma vivo, capace di toccare le emozioni dello spettatore, e in questo Pride sicuramente raggiunge il suo obiettivo.
Bilancio finale di Pride
Da vedere e da far vedere. Oggi più che mai, viste le inutili polemiche sul disegno di legge Zan. E comunque, sempre, perché troppo spesso si dimenticano o si ignorano le ingiustizie fatte subire ad una parte dell’umanità a causa dei pregiudizi sterili e dell’ottusità dell’altra.