Nell’Irlanda degli anni quaranta, combattuta da una guerra civile assurda e fratricida, prende vita la storia di Rose McNulty, giovane ragazza contesa da tre uomini morbosamente attratti dalla sensualità di una donna fragile e determinata. Rooney Mara e Vanessa Redgrave ricoprono il ruolo duplice di un personaggio liberamente tratto dal romanzo di Sebastian Barry, sceneggiato e diretto da Jim Sheridan (Il mio piede sinistro e Nel nome del padre), in sala dal 6 aprile con Il Segreto.
Il Segreto
Narrare un romanzo per il cinema non è impresa di poco conto, soprattutto quando gli intrecci della storia non devono tradire l’autenticità dell’opera originale. Jim Sheridan ha saputo riavvolgere i toni drammatici di una storia che scava dentro l’anima e la mente dello spettatore. Lo ha fatto mantenendo la chiave di lettura originale dello stesso scrittore, Sebastian Barry, proponendo la caratterizzazione di una protagonista resa ambigua dalla stessa sensualità fragile e ‘scolpita’ dalla società del periodo. In una provincialità bigotta e moralista, con una chiesa che detiene il potere assolutista di redenzione e verità, Rose è seguita dai parenti e dagli occhi di chi la vuole proteggere da un peccato pronunciato sottovoce. La stessa madre, segnata da un destino fatto di sofferenza per la perdita del marito, sembra voler tracciare quella linea sottile fatta di incomprensioni e tematiche sociali più complesse e inaccettabili. Tutto incorniciato in quella aurea di conformismo tipico di una Irlanda vittima e carnefice.
La storia. Una anziana Rose McNulty è rinchiusa da cinquant’anni in un manicomio, per aver ucciso il proprio figlio, nato sotto una paternità tenuta con sospetto e abnegazione. Costretta a dover abbandonare la struttura per essere trasferita in un nuovo ospedale, Roseanne si ribella a quell’imposizione, sostenuta dal dottor Grene (Eric Bana), il medico che si appassiona alla storia della donna, sostenendola nella sua innocenza assieme alla stessa infermiera che l’accudisce (Susan Linch). In quel breve tempo concesso ad entrambi, Rose e il medico ripercorrono la storia della sua vita, cercando di sanare quella stessa ferita portata con convulsa redenzione dalla donna. Una verità ‘strappata’ dai ripetuti elettroshock subiti ingiustamente, per quell’amore segreto scritto sulle pagine di una bibbia tenuta sempre con se. Da quel racconto riaffiorano le figure predominanti di tre uomini; il parroco Gaunt (Theo James), il giovane Jack McNulty (Aidan Turner) e il pilota Michael Eneas (Jack Reynor).
Tre uomini che sembrano tracciare il profilo di un unico padre naturale del figlio che la stessa Rose sostiene sia ancora in vita. Da quel racconto, emergono gli episodi drammatici di una vita sostenuta con dignità e remissione, cominciando dalla stessa famiglia. Due genitori che la lasciano alla vita, precocemente. Per essere seguita da chi la vuole pura e piegata a quelle regole che sembrano marcare con troppa austerità quella parte di mondo, nell’Irlanda dei primi del novecento. Padre Gaunt è il giovane parroco che sembra seguirla con gli occhi di chi pretende qualcosa in più da quello sguardo, arrivando a fare a pugni con il giovane pretendente Jack, parente e sposo promesso. Ma nel cuore della giovane Rose sembra esserci solo l’ufficiale Michael, scampato da un disastro aereo durante il conflitto, per cui ha ricevuto una medaglia al valore. La stessa medaglia strappata dalla bibbia di Rose e che rappresenta il cardine con il ritrovamento di quel figlio considerato ancora in vita.
Una storia che si intreccia risolutiva nella sua complessa narrazione. Sostenuta dalle note di un ‘Chiaro di Luna’ suonato con imperfezione e metodicità. Tutto per un finale che si ammorbidisce di autentica commozione ed emotività. Quasi a regalare una nuova reinterpretazione alle pagine del romanzo di Sebastian Barry, ma senza deturpare quell’autenticità che è l’unica porta del cuore che parla sempre al lettore/spettatore. Il regista Jim Sheridan, quindi, ha saputo raccontare una storia autentica e con garbo, forse un po’ troppo ‘sostenuta’ da quei cliché che appartengono solo alla narrazione romanzata. Ma per liberare lo spirito di quell’amore che solo nella scrittura può trovare le parole giuste per esprimersi.