E’ stato sicuramente il film dell’anno in Francia, ed anche dalle nostre parti sta andando bene nonostante il tema ostico. Il profeta di Jacques Audiard racconta l’esperienza di un giovane che entra in carcere a 19 anni, solo ed indifeso: e ne esce criminale vero, piccolo boss con una gang al proprio servizio.
E’ dunque una paradossale storia di crescita, in cui “diventare uomo” significa nella sostanza imparare ad uccidere per non essere ucciso. Il protagonista, Malik, è un nordafricano analfabeta che viene condannato a sei anni di prigione per motivi che non ci vengono detti: all’inizio ci sembra del tutto innocuo, vittima predestinata di un penitenziario francese che appare come il trionfo della legge di natura.
Non ci sono regole da rispettare, lo Stato non esiste, e a comandare non sono i secondini bensì il “clan dei corsi”. Nella recensione de “Il Profeta” su Giudizio universale, Giampaolo Fissore la definisce la “aristocrazia carceraria”: è un gruppetto di criminali spietati, capeggiati dal vecchio Cèsar, che tiene in pugno sia le guardie che i detenuti.
Appena arriva Malik, gli fa capire subito chi comanda ordinandogli di compiere un omicidio; adescando la vittima (un musulmano omosessuale) e tagliandogli la gola. Lo spettatore prevede che un gesto del genere si ripercuoterà ulteriormente sul povero Malik, facendogli pagare ben altro che i sei anni di condanna iniziali. Ed invece non succede assolutamente nulla: il personale penitenziario è sordo e cieco, e i crimini più sanguinosi possono avvenire in tutta tranquillità. Scusate lo spoiler, ma è per fare capire il tipo di ambiente in cui ci troviamo.
Devo dire che la prima mezz’ora ho fatto una certa fatica a vedere il film, per un grado di violenza fisica e psicologica che raramente ho trovato altrove. Eppure, non avrebbe senso senza di essa: è soltanto mostrandoci fino a che punto sia l’Inferno in cui si viene a trovare, che possiamo comprendere il suo percorso di “redenzione” del protagonista. Percorso che inizia eseguendo l’ordine dello spietato Cèsar, e prosegue facendogli da sguattero e conquistando a poco a poco la sua fiducia.
“Il profeta” è naturalmente un titolo di amara ironia, e mi chiedo tutt’ora cosa voglia dire veramente. Ma nonostante la storia sia quanto di più lontano dalle nostre vicende quotidiane, e nonostante sia difficile credere che la vita penitenziaria sia davvero così, questo film colpisce per il senso di autenticità e necessità che comunica. Non c’è nessun trucco per farci “simpatizzare” con Malik, ed abbiamo la sensazione che la sua vicenda ci venga mostrata esattamente per quello che è: indigeribile ma vera. Bravissimi infine gli attori.
Per approfondire
Il film ha fatto ovviamente molto discutere: leggi ad esempio questo articolo de La Stampa su “Il Profeta” e le polemiche suscitate in Francia.
Da come hai scritto tu massimo, questo film sembra veramente controtendenza, oltre che molto duro e spietato, temo però che quello che si vede in molti casi sia propio vero.
Non so se c’entri perfettamente con le tematiche del film ma mi viene da pensare ad esempio al caso Cucchi qui in Italia che è abbastanza eclatante…
sì anche il caso cucchi sembrerebbe impensabile in un paese civile, eppure è successo (e non è neanche l’unico).
la storia di questo film per certi versi sembra ancora più estrema, perché qui i rappresentanti dello Stato (guardie, etc.) è come se non esistessero. non fanno altro che eseguire i desideri della “aristocrazia carceraria”…