Sospendo per un pò le lezioni di cinema tenute da grandi personaggi del cinema italiano durante il BIF&ST per inserirne una di un attore altrettanto importante che ho avuto la fortuna di ascoltare poco più di un mese fa: Luigi Lo Cascio. Affabile e disponibile, Lo Cascio ha raccontato degli esordi della sua carriera e tanti altri aneddoti.
Il sosia
In una sala gremita in attesa di ascoltarlo, presso il Circolo del cinema Dino Risi di Trani, Luigi Lo Cascio ha per prima cosa messo tutti a proprio agio scherzando su di sè:
Mi capita, a film concluso, quando si va a fare le proiezioni in anteprima, che entro in sala e c’è un ‘ooooh’ di delusione: in genere il pubblico non si aspetta che io sia così basso! Il cinema fa davvero miracoli. Così a volte mando mio fratello che è identico a me ma è alto un metro e ottanta. Tra l’altro è anche sociologo e risponde con più dovizia di particolari e con un lessico strepitoso.
Gli esordi
Luigi Lo Cascio ha iniziato la sua carriera di attore in Puglia. Ecco cosa ha raccontato:
In effetti ho iniziato con una tournee che partiva da Trani: era Aspettando Godot tra il 1988 e il 1989. Io studiavo medicina, avevo fatto già due anni, e con alcuni amici facevamo teatro di strada. Soprattutto le estati, per viaggiare, facevamo questi spettacolini in piazza in giro per l’Italia e a volte anche all’estero.
Tutto era iniziato a Palermo dove facevamo degli stornelli a richiesta ai semafori. Il gruppo si chiamava Le ascelle: il nostro era un cabaret biodegradabile perchè era tutto incentrato sui rumori del corpo umano. Ad uno di questi spettacoli mi ha visto un regista palermitano e mi ha consigliato di fare un provino con Federico Tiezzi.
Era una delle suo prime regie dopo la compagnia teatrale de I magazzini criminali. Ho fatto quindi questa prima tournee da studente di medicina senza aver mai fatto apprendistato se non quello della strada. E’ stata quella tournee a farmi amare il mestiere dell’attore. E’ stata un’esperienza sconvolgente.
Innanzitutto la scoperta delle prove teatrali: come spettatori noi diamo per scontato che ci sarà un allestimento, una scelta costumi, niente più. Invece c’è tutta questa attenzione per le parole. Vedevo gli attori che stavano lì anche settimane sulla singola battuta.
Loro vedevano il testo, il linguaggio, non come un dato di fatto ma come qualcosa che va indagato, perlustrato, interpretato e poi ricostruito sulla scena, quasi fossero artigiani della parola. Già per quel piacere del testo, delle parole, ero stato portato a fare una specie di aiuto regista: mi appuntavo le battute e poi facevo da suggeritore.
E poi la fascinazione del luogo del teatro, tra cui questo di Trani, il primo dopo la Sicilia. C’è una fisicità nel teatro, i palchi, il legno, i luoghi ma al primo posto metterei il camerino: in Aspettando Godot eravamo 5 e persino io, pur essendo l’ultimo arrivato (facevo la parte del ragazzo che generalmente è tagliata), avevo il camerino.
Nel camerino c’è il fascino della soglia, del limite oltre il quale la persona si ricorda di essere attore. E poi c’è il truccarsi, il travestirsi, il gioco di fingersi qualcun altro, o anche questa condizione di appartamento, luogo in cui ci si prepara ad entrare in una parte.
Infine ci sono le quinte. Il primo spettacolo che ho visto è stato dietro le quinte: uno dei mie zii, Luigi Burruano che fa mio padre ne I cento passi, faceva questo spettacolo in teatro. Dato che non c’era posto, io, mia madre ed i miei fratelli abbiamo visto lo spettacolo dal retropalco: avevamo l’effetto di vedere la scatola del teatro ma, dopo il proscenio, il pubblico che guardava lo spettacolo. Questi sono ricordi che si imprimono e che hanno inciso sulla mia scelta.
Comunque faccio questa tournee e alla fine crisi! Avevo preso 60 alla maturità, avevo quasi tutti 30 a medicina, mi piaceva studiare ed è stato uno shoc anche per la mia famiglia quando ho deciso di provare a fare l’attore. Comunque, un po’ per carattere, un po’ per rassicurarli, visto che avevo già 22 anni e mi sentivo in ritardo, ho fatto un patto con me stesso: se mi avessero preso all’Accademia di arte drammatica di Roma sarei andato avanti.
Per fortuna mi è andata bene: ora che mi è capitato di ritornare in Accademia come insegnante ho capito com’è difficile per i maestri scegliere in 10 minuti chi deve entrare e chi no. Poi c’era anche l’ultima fase di ammissione che consisteva nel fare in trenta un mese di accademia e poi rimanere solo in venti: era un mese di sofferenza. Ricordo ancora la notte prima della selezione in cui abbiamo fatto una specie di rave e siamo arrivati la mattina dopo tutti mezzi ubriachi.
Quando si comincia si è tutti più presuntuosi: ognuno pensa di essere il migliore e la scuola ti sega le gambe. La scuola ti fa capire che ci sarà tempo per lo stile personale, per la propria voce, ma all’inizio è meglio farsi spugna e assorbire tutto il possibile.
I ruoli
Capita che un attore si lamenti se viene catalogato. A me sembra sempre un miracolo che mi chiamino. Sono arrivato tardi al cinema a 32 anni con I cento passi e lo conoscevo pochissimo: avevo quell’opinione per cui il teatro era superiore al cinema, in quanto luogo della parola. C’è uno spessore, una profondità, una quantità di possibilità in una stessa opera teatrale.
Il cinema, e l’ho capito dopo, è come se fosse la punta in cui si va ad incuneare tutta una preparazione e da cui non si torna: dopo Arancia Meccanica non ne fai altre. Nel cinema infatti ciò contro cui deve lottare un regista o uno sceneggiatore è proprio il deja vu. Se un regista vuole raccontare una storia deve tenere in conto anche del successo o dell’insuccesso di una storia analoga.
Invece il fatto che ci siano state cento Elettra non toglie la possibilità che ce ne possa essere un’altra. Anzi il teatro viene da lontano e possiamo dire se c’è ancora qualcosa in comune con il nostro modo di essere o se ci siamo allontanati: per esempio c’è ancora qualcosa che ci accomuna con la tragedia greca, ma c’è altro da cui ci siamo allontanati e a cui forse dovremmo ricominciare a tendere.
Facendo il cinema e cominciando a vivere il contesto cinematografico, parlandone e guardandolo, mi è venuta questa fame. Io non avevo visto nessun capolavoro, nessun film di Bertolucci o di Kubrick. Quando ho incontrato Marco Tullio Giordana una delle prime volte prima di girare, gli ho detto subito che avevo visto pochissimo cinema: lui mi ha guardato e mi ha detto ‘che culo!‘ pensando alle giornate memorabili che avrei avuto vedendo quei film.
Quanto ai ruoli, se mi chiamano per fare film drammatici è forse perchè identificano la mia fisicità con questo. Pupi Avati ha invece un pò il gusto della contraddizione e gli capita spesso di proporre agli attori parti diverse dalle solite. Così mi sono ritrovato nella sua commedia Gli amici del Bar Margherita.
Quando ho girato quel film mi sono divertito molto, si era ricreata un pò la situazione da bar. Erano quasi più divertenti gli stop. Eravamo lì seduti e mentre io non avevo nulla da dimostrare, tutti gli altri, Neri Marcorè, Fabio De Luigi, da comici, avevano questo gusto della barzelletta, della battuta.
Io come attore non faccio distinzione tra comico e drammatico nel senso che per me è sempre importante il rapporto con il personaggio che si inserisce in un contesto più grande. E’ il regista che si pone il problema di che genere è il film perchè dovrà preoccuparsi della messinscena, del tono, dell’atmosfera, di far ridere.
Termina qui la prima parte dell’originale lezione di cinema di Luigi Lo Cascio. Prima di leggere la seconda parte, invito i lettori ad ascoltare sul podcast la mia intervista esclusiva all’attore.
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