Riprendiamo la chiacchierata con Luigi Lo Cascio, a Trani qualche giorno fa per una lezione di cinema un pò particolare. Nella prima parte ci ha raccontato dei suoi esordi al teatro e successivamente al cinema e dell’importanza del personaggio rispetto alla storia. Ecco cosa ci racconta invece oggi.
Il teatro da regista
Come regista e attore, Luigi Lo Cascio ha portato a teatro due suoi lavori: Nella Tana e La Caccia. Il primo è un monologo tratto da La tana, il racconto di Kafka di cui ha curato la riscrittura e l’adattamento (‘La mia particolare intromissione nella tana di Kafka‘), mentre il secondo è un monologo liberamente tratto da Baccanti di Euripide.
Baccanti era il classico da portare agli esami nel mio anno di maturità e io non avevo toccato un rigo perchè portavo italiano e filosofia. Con l’accademia e l’amore per la tragedia Baccanti mi ha affascinato: ruota tutto intorno a Dioniso, il dio del teatro e non solo, della maschera, della metamorfosi.
Ho provato a tradurlo e mi è venuta l’idea di far dire il tutto ad un’unica persona (anche se l’aveva già fatto Luca Ronconi). Nello scrivere ho pensato che il coro, nella sua accezione del teatro greco, non è più usato: noi non abbiamo esperienze corali di qualcuno che possa parlare a nome della collettività.
Allora invece di fare i cori ho pensato di fare i ‘coroselli’ nel senso che per gli intervalli ho messo una voce fastidiosa, antitragica, che pensa di parlare per tutti, indicandoci quello che dobbiamo fare.
I cento passi
Quando Peppino Impastato è morto Lo Cascio aveva 11 anni e l’ha conosciuto indirettamente. Eppure con I cento passi, suo primo film, ce lo ha fatto conoscere ed amare.
Abbiamo girato I cento Passi nel 1999, conoscevo la storia di Impastato ma male pur essendo nato e vissuto a Palermo, cui Cinisi è molto vicina. Ricordavo quel nome perchè spesso i circoli erano dedicati a lui, come anche un centro antimafia molto importante.
Marco Tullio Giordana mi aveva scelto per quel ruolo e mancava pochissimo all’inizio delle riprese. Ci sono personaggi che presuppongono un minimo di conoscenza ma non è strettamente necessario: a volte è più importante la musica che si ascoltava all’epoca o i libri che si leggevano. L’immersione in un’epoca avviene già implicitamente in questo modo.
Ma la morte di Peppino Impastato era troppo recente per non conoscere a fondo il personaggio. Così arrivo a Palermo e vado a conoscere Giovanni, il fratello di Peppino, interpretato nel film da Paolo Briguglia, con sua moglie Felicetta. Per tutto il tempo in cui abbiamo parlato, Giovanni non mi guardava: ‘l’idea che tu possa interpretare mio fratello mi fa impressione‘ – mi ha detto.
Poi mi ha portato da sua madre chiedendomi di non dire che l’avrei fatto io perchè lei era convinta che l’avrebbe fatto lo scenografo che era identico a lui. Per sua madre era molto importante la somiglianza. Quando Impastato è morto, l’ultimo ricordo che avevano tutti era quello di un uomo molto stanco, provato. Dopo la morte di suo padre aveva capito che sarebbe toccato a lui, e poi c’erano le elezioni. Era un periodo di grande tristezza e malinconia.
Comunque, andiamo da lei, apre la porta e la prima cosa che dice è: ‘non mi dite che lo deve fare lui Peppino, perchè non ci assomiglia per niente!’. Così dico che sono uno degli attori e lei mi porta in giro per la casa. In quel momento mi era un pò tornata la sindrome del primo della classe e volevo fare bella figura. Così quando parlava io la precedevo concludendo le frasi e nel chiacchierare cercavo di sviluppare con lei una certa familiarità.
Una cosa che mi faceva molta impressione è che parlava di Peppino al presente. Alla fine del giro della casa, arriva il momento del saluto e mi dice: ‘Certo di faccia non gli assomigli però il corpicino è il suo. Sei nervoso, com’era lui. Per me il suo corpo è importante perchè non l’ho potuto seppellire‘.
C’era in lei lo strazio di quella morte che l’aveva privata del rito della salma. L’importanza per lei di dare corpo, voce a qualcosa che si era frammentato, era scomparso, aveva creato i presupposti per un rapporto.
La Storia in Buongiorno, Notte e Noi Credevamo
Tra attori, quando si fanno le tournee, la cosa più bella è che i più anziani raccontano aneddoti dei grandi attori che hanno incontrato: quello che si racconta più spesso è la loro ignoranza. In realtà la cultura non è una condizione imprescindibile per fare l’attore, dipende da come si vuole fare questo mestiere. In generale ci si può affidare al regista, ma se si ha anche minimamente un’idea del contesto del personaggio, si può provare ad interloquire con il regista.
In questi testi (Buongiorno Notte, Noi credevamo ed I cento passi n.d.r) c’è una cosa in più per cui è necessario un minimo di studio. Si tratta sempre di personaggi calati nella dimensione pubblica. Non sono personaggi comuni per i quali basta capire il costume dell’epoca e non serve padroneggiare il pensiero politico e filosofico.
Questi sono personaggi dove la dimensione privata è totalmente assorbita da quella pubblica, immersa nel lavoro che fanno (anche nel caso delle Brigate Rosse). In Noi credevamo c’è questo amore per i testi dell’illuminismo per quello che è stato un passaggio di saperi che hanno cominciato a smuovere le acque. E poi la musica: questi uomini erano sostenuti da certe note, da certi ritmi (Rossini, Verdi, Bellini), nelle cui note è scritto tanto patriottismo.
In Buongiorno, Notte c’è lo studio di come si forma questa patologia del pensiero in cui si parte da un’idea condivisibile, magari anche giusta, e si arriva a negare totalmente l’uomo.
Mio cognato
Io di solito sono un pò diffidente con i film che hanno a che fare con i dialetti. Ci sono attori a cui viene facile, io invece faccio fatica. La cosa che mi ha convinto è che la mia parte è quella di un personaggio fuori luogo, tanto che gli chiedono sempre se è di Bari. Quindi non mi sono preoccupato anzi mi sono anche divertito perchè in effetti è una dark comedy.
Anche Sergio Rubini ha fatto l’Accademia e in questi casi si crea lo spirito di gruppo che per gli altri è insopportabile. Con Sergio abbiamo avuto lo stesso maestro, Mario Ferrero, per cui ci capitava di ripetere dei versi di Tasso e li dicevamo nello stesso modo. Erano gli anni in cui all’Accademia ti dicevano di lasciar perdere il tuo modo di fare e fare come dicevano loro. Abbiamo passato un bel periodo insieme.
Quel film è stato un po’ sottovalutato, uscirono alcune stroncature, qualche critica tiepida, solo un paio di buone recensioni. Poi uscì a fine agosto, aveva fatto Locarno e non Venezia. Eppure ha dei cultori legati all’uscita successiva in dvd ed in televisione. Una volta mi hanno invitato in radio e loro mandavano come jingle dei pezzi del film.
Ho dovuto anche passare l’iniziazione con il pesce crudo. Bari mi ha stupito per questo: c’è una cultura del mare che non c’è neanche a Genova o Venezia o Palermo, da cui provengo. A Bari il mare è visto come luogo di iniziazione dove si dimostra la virilità.
Termina qui la seconda parte della lezione di cinema di Luigi Lo Cascio. Prima di leggere la terza ed ultima parte, invito i lettori ad ascoltare sul podcast la mia intervista esclusiva all’attore.