Questo ultimo lavoro di Pier Paolo Pasolini è un testamento visivo, così come Petrolio è un testamento letterario. Alle nostre orecchie i discorsi di queste opere risuonano come una profezia assordante e purtroppo incompresa.
La trama del film
1944, ultimi mesi della Repubblica Sociale, in una villa isolata un gruppo di fedelissimi repubblichini dà sfogo a tutte le proprie voglie più estreme su alcuni giovani prigionieri.
In particolare quattro uomini che rappresentano quattro diversi poteri (religioso, giudiziario, economico e nobiliare), dopo i racconti di quattro ex prostitute, organizzano rituali sessuali di gruppo di tipo sadomasochistico e feticistico.
Per 120 giorni è stabilito un sistema di regole altro rispetto al solito.
Col passare del tempo il confine tra il sesso e la tortura, l’accanimento, l’assassinio diviene sempre meno visibile.
Un film allegorico come l’inferno dantesco
Pasolini fa incontrare il marchese De Sade con quel che resta delle ideologie totalitarie del XX secolo. Ma si tratta di una metafora, Salò è un film sul potere in generale, un potere che cerca di controllare gli individui mediante il controllo dei corpi.
La denuncia è chiara, limpida e addirittura iperbolica.
Si tratta di un discorso politico e sociologico: qualsiasi potere ambisce al controllo sessuale dei suoi sottoposti. Dunque il sadomasochismo e il dominio sessuale sono solo l’immagine riflessa di quello che chi governa fa a chi è governato.
Il film incorse in numerose noie e sequestri giudiziari, le scene di coprofagia destarono particolare scalpore.
Anche in questo caso, Pasolini ha creato una terribile metafora; il fascismo cercò di omologare le persone con la violenza e la prevaricazione, si era quindi costretti a mangiare le feci.
Invece, nella società dei consumi sono gli individui stessi a scegliere di accettare l’inaccettabile, credendosi liberi. Inoltre il consumismo si è appropriato dei corpi e li ha trasformati irrimediabilmente a suo piacimento, dopo aver ottenuto un mutamento antropologico delle coscienze.
Questo tipo di denuncia era diventato una ragione di vita per Pasolini, l’urlo disperato di un intellettuale che osserva un mondo in disfacimento.
Era ormai arrivato a pensare che il potere fosse quanto di più anarchico possibile, chi ha il potere può fare praticamente ciò che vuole, con il massimo dell’arbitrio.
Il numero quattro è figlio della simbologia di De Sade e ritorna numerose volte nel film, tanto che la pellicola si presenta divisa in un’anticamera più tre gironi, sulla scia della commedia dantesca.
Proprio come L’inferno, Salò è una grande allegoria, con una struttura narrativa di stampo boccaccesco.
Pasolini ritorna coraggiosamente sui suoi passi, addirittura abiurando dai suoi tre film precedenti, la cosiddetta “trilogia della vita”.
Qui il sesso aveva un aspetto opposto, non forma di dominio, ma massima espressione della vitale ingenuità del corpo.
Uno spezzone del film
Un’esperienza isolata
Questa rivisitazione contemporanea delle 120 giornate di Sodoma mette in secondo piano l’aspetto tecnico, volendosi evidentemente concentrare sul messaggio da lanciare allo spettatore. Tutto sommato si tratta di una voce isolata in un momento in cui la sperimentazione cinematografica impazzava e quasi mai il contenuto prevaleva sulla forma.
Dietro la macchina da presa c’è il solito Pasolini, gli attori scelti per Salò erano masochisti anche nella vita, proprio come aveva già fatto in altri film.
Ad esempio in Accattone (il suo primo film) i sottoproletari erano per lo più interpretati da vera gente di borgata.
L’obiettivo è sempre quello di una recitazione che nasce innanzitutto dai volti e dai corpi e che sappia allo stesso tempo risultare quanto più naturale possibile.