di Chiara Ricci
La trama
In una città mesta dove nessuno ha più voglia di vivere, dove persino i piccioni si suicidano gettandosi sotto le auto in corsa , si trova l’originalissima e geniale “bottega dei suicidi” della famiglia Tuvache sin dal 1854. Qui Lucrece e Mishima – i coniugi Tuvache – vendono con l’aiuto dei loro figli Marilyn e Vincent tutto l’occorrente per un perfetto suicidio: veleni, corde di ogni sorta e fattura, pugnali, lamette, pistole… la parola d’ordine è “trapassati o rimborsati”.
Gli affari dell’azienda di famiglia vanno a gonfie vele anche perché in questa cittadina non sono ammessi suicidi per la strada, pubblici..tutto deve avvenire nel privato della proprie abitazioni pena una salata ammenda.
Ma la vita e il lavoro della famiglia viene stravolto dalla nascita di Alan il quale diviene la vera “pecora nera” dei Tuvache solo perché ha in sé una grande gioia di vivere e non fa altro che vedere il mondo con ottimismo e con un enorme sorriso stampato sul volto.
I genitori sono disperati.. tanto che Mishima permette anche al piccolo di fumare pur di accorciargli affettuosamente la vita.
Ma sarà proprio il piccolo Alan con il suo carattere così gioviale e positivo a creare – dulcis in fundo – un nuovo equilibrio nella sua famiglia e nella sua cittadina…
Il trailer
Il cartone animato e la censura
Il film di Patrice Leconte (già regista di Ridicule, La ragazza sul ponte, Tango), tratto dall’omonimo romanzo di Jean Teulé è stato presentato fuori concorso, e senza riscuotere grandi consensi, alla scorsa edizione del Festival di Cannes. Oggi arriva il suo debutto alla stampa italiana prima di uscire nelle nostre sale il prossimo 28 dicembre anche da noi non sono mancate le polemiche e…un po’ di falso buonismo. Il film, infatti, anche con grande stupore dello stesso regista, potrà essere distribuito ma vietato a un pubblico di età inferiore ai 18 anni. Perché? Solo perché il cartone animato è stato profondamente frainteso e inteso come possibile spinta a un vero suicidio..ovvero: i bambini (anche fosse..fino a 18 anni??) potrebbero emulare ciò che vedono svolgersi così semplicemente e candidamente sullo schermo: un suicidio!
Mentre il cartone di Leconte è da intendersi assolutamente all’inverso: esso non vuole essere altro che un inno alla vita! E non è una caso che il film si apre sulle note della canzone Il y a de la joie cantata dal celeberrimo Charles Trenet.
Un cartone animato da non perdere
Ma, prolemiche a parte, il cartone in 2D di Leconte è assolutamente spassoso, geniale tanto quanto lo è il soggetto, la trama stessa della storia che rappresenta. Tra un suicidio e l’altro si racconta e si spiega dell’importanza della Vita e della gioia di vivere che il piccolo Alan trasmette come per contagio ad amici e parenti.
I ragazzi Tuvache hanno tutti nomi di famosi suicidi: Marilyn ( Monroe), Vincent (Van Gogh), Alan (Turing)..ma il loro destino prenderà tutta un’altra strada.
Ottima è la resa in 2D di questa storia, perfetti sono i personaggi creati per viverla, bellissime le canzoni (e un plauso più che meritato va ai doppiatori italiani del film che le interpretano come Pino Insegno che presta la sua voce a Mishima e Fiammetta Izzo per Lucrece).
È un cartone animato che vale assolutamente la sua visione poiché regala ottanta minuti di sane risate, di leggero e sano cinismo, di un non pesante e scuro senso del macabro..insomma, può considerarsi un cugino del genio di Tim Burton.
E non dimenticate di portare i vostri bambini: non possono apprendere di più spaventoso, di poco educativo di quanto già non vedano e sentano dalla tv! Vedere che nella vita c’è anche questa possibilità ma fargliela capire con leggerezza e, allo stesso modo ma con maggiore incisione, far capire loro che si può anche andare oltre, anche con una canzone e una risata in più…non può essere che un ottimo insegnamento per loro..e anche per i loro accompagnatori!
Leconte vuole imitare Burton, ma la sua Bottega ci riesce solo a metà
di Vera Santillo
Echi “timburtoniani”, atmosfere alla Nightmare before Christmas, gusto per il macabro stile Famiglia Addams e una buona dose di ironia sono gli ingredienti a cui Patrice Leconte si è ispirato per la ricetta del suo primo film animato che però non sembra aver raggiunto il risultato sperato. La Bottega dei Suicidi pare aver perso la tonalità scura e tenebrosa, il sapore più amaro e al contempo più corrosivo del best seller di Jean Teulé da cui è tratto.
Al centro del libro e del film la famiglia Tuvache che da generazioni gestisce una bottega di armamentari utili al suicidio. Gli affari vanno a gonfie vele, persino i piccioni si suicidano in questa città senza nome, ma a tutti è fatto divieto di uccidersi in pubblico. A mettere a rischio il successo della ditta Tuvache è la nascita di Alan, il terzogenito dopo la triste e insicura Marilyn e l’apatico e inquietante Vincent. Alan è diverso dai suoi fratelli, lui sorride alla vita, è entusiasta e sprizza allegria da tutti i pori. Un’allegria contagiosa che potrebbe colpire anche i preziosi clienti della bottega e dissuaderli dai loro propositi di morte.
Ci troviamo in un non-tempo e in un non-spazio e Leconte motiva l’atemporalità del suo film col fatto che sarebbe stato troppo semplice dire che è la società moderna a spingere al suicidio. Ci sembra, però, che sia altrettanto semplicistico ridurre tutto allo slogan che la vita è bella e che per questo valga la pena viverla fino in fondo. “La vita non è sempre bella, ma è sempre meglio della morte”, ammette Leconte. Eppure perché debba essere migliore della morte, questo il film non ce lo dice e in fondo nessuno può spiegarlo.
Forse è proprio la profondità di un tema così grande, che rischia di essere sviluppato in maniera didascalica, il problema di un film che vuole essere un inno alla vita e fallisce in quanto a incisività e potenza. In gran parte per colpa di una sceneggiatura quasi senza evoluzione, con pochi avvenimenti, per lo più insufficienti e personaggi che restano delle silhouette di cartone, piatte e monotone. I personaggi cambiano senza un reale arco di trasformazione, ma solo perché Alan ha deciso che la sua allegria debba servire a qualcosa. Ed è proprio il personaggio di Alan il meno riuscito, il più uniforme e sempre uguale a se stesso.
Ciò che lo spinge a mandare all’aria gli affari di famiglia e a salvare decine di vite umane non è il gusto di fare dispetto a papà Mashima Tuvache, ma è la sua allegria che non tollera l’eccessiva serietà e la tristezza degli adulti. È un amore vago e indefinito per l’umanità, per la vita a spingerlo. Un amore che un bambino reale vive senza la consapevolezza di Alan, ma attraverso un’innata meraviglia, un incanto immotivato e un desiderio di scoperta del mondo che gli fa desiderare di esplorarlo e non di abbandonarlo con una dipartita. Stupisce che un regista che ha trattato il tema del suicidio con lirismo e leggerezza ne La Ragazza sul Ponte, abbia fatto, è proprio il caso di dirlo, un tuffo nel vuoto con un film che non coinvolge e che non incide.
L’ironia, la presa in giro del suicidio, questo tentativo di esorcizzare la morte sono gli elementi più interessanti del film che lo avvicinano al modello a cui Patrice Leconte dice di essersi ispirato e cioè all’universo macabro favoloso di Tim Burton. A quel modo di rendere normale la mostruosità, di condurre l’orrido all’eccesso (si pensi alla lametta usata e arrugginita che se non taglia le vene almeno ti fa prendere il tetano), al sapore dark di certe atmosfere e di alcuni personaggi, soprattutto Vincent, il fratello brutto e funereo che disegna incubi mostruosi e neri come quelli del Vincent di burtoniana memoria.
No Responses