Foxcatcher – Una storia americana è diretto e prodotto da Bennett Miller, al suo terzo lungometraggio, dopo Truman Capote del 2005 (grazie al quale Philip Seymour Hoffman vince un Oscar come miglior attore) e Moneyball nel 2011 (Candidato in 6 categorie degli Oscar 2012).
Foxcatcher – Una storia americana
di Matteo Martinelli @Percorsi Up Arte
E’ già la seconda volta che il regista racconta una storia vera legata alle vicende dello sport americano e anche questo film ha ottenuto tantissime nomination nei festival più importanti del mondo: Foxcatcher infatti partecipa in concorso alla 67ª edizione del Festival di Cannes e ha ricevuto ben cinque nomination ai Premi Oscar 2015, tra cui le principali per miglior regia, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura originale.
Il film è l’adattamento cinematografico dell’autobiografia Foxcatcher. Una storia vera di sport, sangue e follia scritta nel 2014 da Mark Schultz, fratello di David, entrambi campioni olimpici di lotta nel 1984 e vittime del tremendo episodio di cronaca che sconvolse l’america nel 2006. L’autobiografia è stata scritta di pari passo alla sceneggiatura del film.
Mark e David Schulz sono fratelli e campioni olimpici di lotta libera. Mark è il più piccolo e nonostante sia molto legato al fratello maggiore si sente oscurato dalla sua ingombrante presenza. Un giorno Mark viene contattato dal milionario John E. du Pont, erede della famiglia du Pont, che gli propone di unirsi al Team Foxcatcher, da lui stesso istituito per allenarsi in vista dei campionati del mondo.
Grazie all’aiuto finanziario di du Pont Mark riesce a vincere l’oro ai Campionati del Mondo del 1987, per la prima volta senza l’aiuto di suo fratello maggiore, e questo lo avvicina sempre più a du Pont. Ma il loro rapporto di amicizia inizia presto ad essere venato da elementi di ossessione e paranoia inoltre Du Pont inizia Mark all’utilizzo di cocaina. Il giovane campione senza una vera guida a livello sportivo, ma sopratutto umano, inizia a perdere di vista i propri obiettivi: salta gli allentamenti, beve ed è dipendente dalla droga.
In queste condizioni non riesce più a gestire il team di Du Pont. I Foxcatcher saltano l’ennesimo allenamento scatenando l’ira di du Pont il quale riesce a convincere David a trasferirsi con tutta la famiglia presso la propria tenuta per prendere in mano e allenare la squadra di lottatori, in vista delle olimpiadi dell’88. Mark umiliato e ferito da du Pont perde la stima in sé stesso.
Solo grazie al fratello riesce per un soffio a qualificarsi alle olimpiadi, mentre la madre di Du Pont muore proprio durante le qualificazioni. L’instabilità mentale del rampollo, già precaria, viene messa a dura prova da questo episodio. Mark non riesce a superare le prime gare delle Olimpiadi indisponendo ulteriormente il magnate rispetto tutta la famiglia Schulz. Da allora una escalation di ossessione e pazzia porterà all’episodio che scatenerà definitivamente la follia di John E. Du Pont…
Regia asciutta, sceneggiatura essenziale
La regia di Miller asciutta e sintagmata non lascia spazio a sbavature di nessun genere. Tutto è costruito in modo da non far calare neanche per un attimo la tensione dello spettatore, che aumenta sottile e costante per l’intera durata del film, fino a esplodere nel finale. La sensazione predominante è l’ineluttabilità di una tragedia che può compiersi in qualsiasi momento. Tutti gli elementi che costituiscono l’opera tendono a questo obiettivo.
La sceneggiatura è essenziale, ogni parola è accompagnata dalla giusta azione e dalla giusta intenzione, in modo da dare nervo all’intero impianto narrativo. Grandissima cura è riservata al mileu, agli ambienti in cui vivono e operano i personaggi, i quali è come se emergessero lentamente, dalla scena. I loro contorni psicologici si svelano a noi strato per strato.
L’ossessione e la pazzia vengono raccontate sopratutto attraverso le immagini più che le parole, grazie alla cura maniacale, e l’attenzione ai dettagli che la camera ci costringe a notare. L’uso della musica è ridotta al minimo, sempre rimanendo coerente con lo stile severo, ma curatissima è la dimensione sonora. I lunghi silenzi rotti solo dai rumori prodotti nell’ambiente dai personaggi o dalle cose, non fanno che alimentare la suspense dello spettatore.
Le inquadrature si susseguono con un montaggio scevro da virtuosismi inutili: tagli netti e giustapposti. Le immagini si alternano tra “cornici” elegantemente composte, tagli in profondità, sopratutto negli ambienti chiusi, che danno sempre la possibilità di scorgere elementi che raccontano la crescente ossessione, e campi lunghi su paesaggi algidi che raccontano profonde solitudini.
Il racconto inoltre mantiene il punto di vista di Mark per quasi tutto il racconto, facendo conoscere allo spettatore in sala, solo quello che il protagonista può conoscere in quel momento, permettendo una condivisione della crescente angoscia del protagonista.
Ottima la scelta ricaduta su Steve Carell per interpretare il magnate Du Pont, i primi piani che indugiano sui tratti non armonici dell’attore insieme alla sua capacità interpretativa, rende il personaggio di una rara forza espressiva. Un film assolutamente consigliato, se possibile da vedere in versione