Ieri (mercoledì 7 aprile) è stato presentato in anteprima a Milano il film di denuncia Burma VJ – Reporter i et lukket land (Burma VJ – Cronache da un paese blindato, 2008) del regista danese Anders Østergaard.
Storia di un film, storia di uno Stato
18 settembre 2007, Birmania.
Migliaia di monaci buddhisti guidano il popolo in una protesta pacifica contro la crudele dittatura militare di Than Shwe.
Iniziano i tragici dieci giorni della Rivoluzione Zafferano, il cui nome è un richiamo alle Rivoluzioni colorate nate in alcuni stati post-sovietici (in questo caso, il termine si riferisce alle vesti dei monaci, appunto color dello zafferano).
Le telecamere ed i giornalisti stranieri sono stati banditi, ed il Myanmar (nome ufficiale dello stato birmano dal giugno 1989) diviene un paese proibito, ostaggio del regime militare di cui è vittima da più di 40 anni.
Un gruppo di video journalists (VJ) della tv locale Democratic Voice of Burma (DVB), coordinati via cellulare dal 27enne Joshua, rifugiatosi in Thailandia, riesce però a filmare clandestinamente le manifestazioni.
Le immagini vengono contrabbandate fuori dalla Birmania: così il resto del mondo può accorgersi di ciò che accade, così può assistere a questa realtà davvero agghiacciante.
Il coraggio di raccontare
Le riprese amatoriali sono talmente schiette che ci coinvolgono fin dall’inizio della rivolta.
E’ come se anche noi fossimo in mezzo alla folla color zafferano; come se anche noi stessimo inneggiando ad Aung San Suu Kyi (leader della Lega Nazionale Democratica e Premio Nobel per la pace, attualmente agli arresti domiciliari); anche noi chiediamo pace e libertà.
La paura di essere scoperti con l’obiettivo fotografico è sempre presente: l’angoscia ci pervade quando la telecamera, rimasta accesa nello zaino del reporter, ci rende testimoni del suo arresto.
Ma il mondo deve sapere, e questi coraggiosi giornalisti sono l’unica speranza che rimane a questo paese martoriato.
Il governo risponde, e il sangue scorre
Come le altre Rivoluzioni colorate, anche quella nel Myanmar ha utilizzato metodi non-violenti e di disobbedienza civile, ispirati ai testi del filosofo statunitense Gene Sharp.
Ma proprio come nelle altre, anche qui la reazione del governo ha trasformato la contestazione pacifica in una tragedia: i gas lacrimogeni creano scompiglio, l’esercito apre il fuoco sulla folla, molti monaci vengono umiliati e catturati.
La memoria vola allora a 19 anni prima, quando l’8 agosto 1988, durante la cosiddetta Rivolta 8888, i militari uccisero migliaia di studenti in protesta contro l’oppressione politica ed economica.
“If we must die, we will die” (“Se dobbiamo morire, moriremo”)
Colpisce in particolar modo la forza d’animo di questa gente, che non s’arrende neppure di fronte alla morte: nonostante i divieti e le misure repressive adottate dal regime, i monaci tornano in prima fila a guidare la ribellione.
E se viene loro proibito di radunarsi per le strade in più di 5 persone, essi si presentano in centinaia.
Le loro teste pelate ondeggiano nella città di Rangoon, le loro mani si alzano e si stringono l’una all’altra a significare che il loro desiderio di pace trascende questo universo di soprusi, e che si innalzerà sempre al di sopra di qualunque violenza.
Anche quando la speranza sembra svanire, anche quando i reporter della DVB vengono arrestati e condannati all’ergastolo, soltanto per aver ricordato al mondo che la Birmania esiste.
Premi e riconoscimenti
Grazie al montaggio di Østergaard e della sua troupe, che ha lasciato intatta la carica emotiva delle immagini a loro pervenute, il documentario risulta di grande impatto e di forte accusa.
Il film si è guadagnato la nomination agli Oscar® 2010 per il Miglior Documentario, in aggiunta ai premi ottenuti in oltre 40 festival nel mondo.
Non dimentichiamoci che ciò che stiamo guardando non è un film, ma è il nostro mondo. Reale.