E’ con molto piacere che ritroviamo il regista Roberto Urbani che, dopo il suo esordio con un cortometraggio, si è cimentato con un interessante documentario: Il piccolo calciatore.
Il piccolo calciatore di Roberto Urbani
Samuel ha dodici anni abita a Verona e vuole fare il calciatore, ma una barriera invisibile si oppone silenziosamente al suo obiettivo.
Il docufilm di Roberto Urbani, Il piccolo calciatore, ruota intorno al mondo del calcio e soprattutto intorno al crescente razzismo che in Italia a dispetto di quel “italiani brava gente” di memoria del secondo conflitto mondiale, ha invece trovato fertile terreno.
Roberto Urbani parte dalla storia di Samuel, un bambino di fatto italiano perché nato a Verona da mamma veronese e papà originario del Benin innamorato del gioco più bello del mondo per poi focalizzare diversi personaggi del football business che affrontano la tematica del razzismo nello sport. Durante i titoli di testa il regista inserisce alcune vicende negative accadute a calciatori di colore che dimostrano come la mala pianta dell’intolleranza sia presente in Italia da nord a sud.
Dopo una panoramica sull’operosa Verona e sui suoi abitanti, desiderosi di pace e tranquillità, Roberto Urbani intervista alcuni extracomunitari della città che parlano della loro relazione con la città e delle loro esperienze spesso purtroppo negative, di intolleranza e freddezza. Al contrario i genitori di Samuel parlano del loro incontro occorso quando a Verona pochi erano gli abitanti non veneti e soprattutto non italiani.
La storia dei due è al contrario un esempio di tolleranza e apertura perché sia la mamma che il papà di Samuel nonché i loro reciproci genitori hanno saputo combinare le loro due culture senza ricorrere a compromessi o mancanze.
La conclusione del documentario è uno spiraglio di positività perché vede impegnati in una partita di calcio tanti piccoli italiani figli di emigrati di diverse etnie.
Come Pierre De Coubertin sostenitore dello sport come fautore di tolleranza e amicizia tra i popoli, anche Roberto Urbani affida ai bambini il futuro del mondo.
Le domande al regista Roberto Urbani
Ciao Roberto, bentornato su cinemio. Dal cortometraggio al documentario. Come mai questo salto? Voglia di immergerti ed indagare nella realtà?
Ho pensato prima di tutto all’idea, e poi ho trovato, istintivamente, il genere più adatto per raccontarla: volevo avere a che fare con la realtà e con un reale approfondimento. Il documentario era la forma più adatta per rispondere a questa esigenza di realtà. Mentre per rimarcare gli aspetti più emotivi potevo utilizzare le ricostruzioni fiction e l’animazione.
Non volevo suscitare emozioni facili nello spettatore e ricorrere ai soliti luoghi comuni con cui si ha a che fare quando si tratta una tematica come quella del razzismo.
Volevo con tutto il cuore offrire allo spettatore impegnato vere parole di approfondimento. E poter arrivare a formulare delle proposte concrete, sia da un punto di vista tecnico (il razzismo nel mondo del calcio) sia da un punto di vista umano (il razzismo nella vita).
Raccontaci un po’ la genesi di questo documentario. Come sei arrivato al tema?
Ricordo che ero in macchina, stavo guidando da Roma in direzione Verona. Stavo tornando a casa. E ho pensato proprio che mi sarebbe piaciuto poter girare qualcosa nella mia terra.
E la mente è andata a quando, da piccolo, giocavo a calcio. Ai campetti di periferia e di terra, agli allenamenti in cui si correva al massimo fino a stare male, alle partite della domenica che erano tutte fondamentali, alla fascia da capitano, alle nuove divise che ci davano all’inizio della stagione, e ancora alle file di motorini, ai borsoni, ai panni sporchi che mia madre lavava sempre con cura, ai miei compagni di squadra.
Tra loro c’era Mohammed, un ragazzino marocchino che aveva difficoltà di integrazione. In quel momento è nata una domanda: un ragazzino di colore oggi avrebbe le stesse difficoltà di inserimento che Mohammed aveva avuto quindici anni fa?
A quel punto si è cominciato a fare sul serio. Le due produzioni Terra Lontana e ZEN.movie – con i soci Dario Di Mella (alla fotografia), Nicoletta Cataldo e Giulio Mastromauro (in produzione), Rosa Santoro (al montaggio) – si sono messe al lavoro e hanno trovato il supporto di vari enti pubblici e privati: il contributo della Fondazione San Zeno, di Astoria Wines e del Comune di Verona, il sostegno della Regione Veneto, della Verona Film Commission, del Valpolicella Calcio, del FARE e dell’Associazione Italiana Calciatori, la collaborazione tra gli altri di Valpolicella Calcio, Chievo Verona, Hellas Verona.
Nomi importanti per un progetto importante. Ho avuto poi la fortuna di essere affiancato da professionisti che hanno reso il lavoro più interessante, completo e profondo (tra gli altri la squadra di fotografia con cui lavoro abitualmente, le musiche di Gianfranco Marongiu, l’animazione di Gianfranco Bonadies, il suono di Vincenzo Santo, i costumi di Susanna Razzi).
Termina qui la prima parte dell’intervista al regista Roberto Urbani. Continua a leggere la seconda parte.