Cinemio è andato a vedere in anteprima nazionale l’opera di Daniele Ciprì, al suo esordio dietro la macchina da presa. Ecco per voi le recensioni di Igor e Jessica di È stato il figlio, che uscirà nelle sale il 14 settembre.
Tratto dal romanzo di Roberto Alaimo, la storia è quella della famiglia Ceraulo, raccontata da un uomo trasandato di nome Busu all’interno di un ufficio postale, nell’interminabile attesa del suo turno. Tra un numerino sul led luminoso e l’altro, il misterioso e annoiato Busu riferisce le vicende del capofamiglia Nicola, che mantiene la sua famiglia rivendendo il ferro vecchio delle navi in disarmo, dei suoi genitori Fonzio e Rosa, che vivono in casa con loro – l’uno sordo, l’altra un vortice continuo di parole – della moglie Loredana e dei figli Tancredi e Serenella. Le giornate trascorrono serenamente nella periferia di Palermo quando senza alcun preavviso, al ritorno da una giornata trascorsa al mare, un evento sconvolgerà la vita della famiglia Ceraulo, trascinandola in un periodo travagliato da debiti e morte e mettendo a nudo i suoi componenti come mai era successo prima.
Del sangue sull’asfalto, una macchina bruciata in mezzo al cortile deserto e una bambina che fissa il vuoto disorientata. Daniele Ciprì, alla sua prima opera dietro la macchina da presa, dopo lodevoli prove come direttore della fotografia in pellicole del calibro di Vincere (2008, Bellocchio), ci racconta un microcosmo fatto di sofferenza e povertà, quello della periferia palermitana, che conosce molto bene, essendo nato e cresciuto nel capoluogo siciliano. All’interno della narrazione è forte la componente fiabesca, se così possiamo definirla: le storie, gli aneddoti, le barzellette che vengono raccontate dai personaggi – a loro volto protagonisti delle parole di Busu – sono tante, ma ruotano tutte attorno alle peripezie della famiglia Ceraulo.
Il capofamiglia è interpretato da un Toni Servillo in grande spolvero, ben supportato da una Giselda Volodi in parte ed espressiva – nel ruolo della moglie Loredana – e da una strepitosa Aurora Quattrocchi, nei panni dell’esplosiva (soprattutto nel finale) nonna Rosa. I toni usati da Ciprì sono diversi e, dalla loro sinergica interazione, scaturisce una tragicommedia paradossale, in cui ai momenti di riso leggero si affiancano senza preavviso immani tragedie, che dipingono il ritratto di una terra difficile, quella siciliana, da cui molti vorrebbero fuggire per non fare più ritorno – non a caso, il ritornello di una delle prime canzoni reciterà: “Se me ne vado, non torno più”.
La sapiente fotografia dai toni caldi, il cui merito è da riconoscere ancora a Ciprì, (dis)inquadra il film in un tempo indefinito, che avvertiamo come lontano ma contemporaneamente familiare, già noto. Dietro l’attesa del compenso per la morte di Serenella, si possono scorgere echi verghiani del Ciclo dei Vinti (I Malavoglia, ecc…), che trovano il loro culmine nella Mercedes tanto desiderata da Nicola, simbolo di una (tentata) scalata sociale che è solo ostentazione di un benessere che non c’è, di una misera ricchezza fasulla, costruita solo sull’apparenza.
Unico neo dell’intera opera, e neanche troppo piccolo, è un ritmo che fatica a decollare – se non nelle sequenze finali – e, non dico ad avvincere, ma neanche a carpire l’attenzione dello spettatore e a farlo entrare empaticamente in contatto con i protagonisti della vicenda.
In conclusione, interpretazioni assolutamente degne di nota, una storia potenzialmente corposa e coinvolgente, alcune sequenze memorabili – su tutte, le grida e gli ordini della nonna Rosa sul finale – ma un film che perde spesso la bussola e si trova a vagare nell’immaginario di Ciprì, senza preoccuparsi di interagire con lo spettatore. Nonostante questo, un’opera prima di buon livello, soprattutto considerando la maggior parte delle odierne pellicole italiane.
…Si può ottenere ricchezza da una tragedia?
Presentato alla 69 mostra del cinema di Venezia, È stato il figlio del regista Daniele Ciprì, racconta la storia della famiglia Ciraulo composta da papà Nicola (Toni Servillo), Loredana (Gisella Volodi), Tancredi (Fabrizio Falco), Nonna Rosa (Aurora Quattrocchi), Nonno Fonzio (Benedetto Ranelli) e la più piccola del gruppo, Serenella (Alessia Zammitti), che sarà la “causa” della tragica fine della famiglia. La storia è ambientata nella periferia di Palermo negli anni 80 tra bambine che si divertono a giocare con pistole finte e padri che faticano dalla mattina alla sera per far campare le famiglie composte da 5 6 persone. Questa è la situazione iniziale che il regista descrive. Le lamentele del padre Nicola che non “ce la fa da solo a portare avanti la baracca”, le crisi adolescenziali di Tancredi che, come tutti i ragazzi all’età di 20 anni, non sa cosa fare del suo futuro e il resto della famiglia, ipocrita e insensibile, che pensa solo ai piccioli e a sopravvivere nella società palermitana degli anni 80 in cui la miseria è all’ordine del giorno. Il punto di svolta è la morte di Serenella, uccisa con due colpi di pistola da due esponenti della mafia che, in realtà, dovevano far fuori Masino (Piero Misuraca) cugino della famiglia Ciraulo. Una tragedia per Nicola (un po’ meno per il resto della famiglia) che però, con l’aiuto dell’amico di famiglia Giovanni (Giacomo Civiletti), porterà fortuna e i tanto amati piccioli.
Una storia appartenente al passato raccontata da Busu nella contemporaneità seduto all’interno di un ufficio postale in attesa di essere chiamato per pagare l’ennesima bolletta. I problemi della famiglia Ciraulo non sono poi tanto diversi dai problemi delle famiglie di oggi, spiega il regista Daniele Ciprì: gli usurai e i prestiti, l’ipocrisia familiare, l’unione che non esiste. Un film grottesco, comico e drammatico allo stesso tempo, che sembra riprendere a tratti il Mazzarò di Giovanni Verga. La roba, l’ansia di dover accumulare sempre più ricchezza, perché solo chi ha i piccioli sembra avere il rispetto del quartiere e il vero potere. È la società italiana degli anni 80, anche se la situazione oggi non è cambiata affatto, a dettare le regole del consumismo: si desidera sempre di più dando agli oggetti un’importanza che va oltre la famiglia. La famosa Mercedes è il simbolo della ricchezza finalmente ottenuta. Non è fondamentale sapere come si è arrivati a questo punto, l’importante è consumare e per farlo bisogna possedere qualcosa. Sarà proprio la macchina la causa della fine dei Ciraulo, ma non voglio anticipare niente.
Il cast scelto dal regista è perfetto per la storia, a partire da Toni Servillo nei panni dell’iracondo Nicola, per finire con Fabrizio Falco ovvero l’insicuro e fragile Tancredi. Daniele Ciprì, inizialmente, non riusciva a vedere Toni Servillo come Nicola Ciraulo. Lui stesso afferma che: “Io non ce lo vedevo proprio. A parte che pensavo che neppure mi conoscesse e poi che nn potesse diventare Nicola Ciraulo. Uno straccio. Lui era per me come Laurence Olivier, Edoardo De Filippo, Marcello Mastroianni ed ero sicuro che non mi avrebbe neppure risposto al telefono. Un po’ come la volpe e l’uva, ero terrorizzato che mi dicesse di no.”
Nel complesso il film è gestito bene, gli attori hanno interpretato perfettamente i loro ruoli e la morale è chiara e facilmente comprensibile. Finale a sorpresa che non voglio svelare, per saperne di più andate al cinema il 14 settembre, giorno in cui il film uscirà nelle sale italiane. Non ve ne pentirete.
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