Questa settimana per la rubrica dei registi emergenti lascio la parola alla nostra collaboratrice Francesca Barile che ha partecipato ad una serata dedicata alle donne ed al genere documentario. Protagoniste due registe di documentari, Cecilia Mangini e Alina Marazzi.
Essere donna nel cinema documentario di Cecilia Mangini e Alina Marazzi
Due documentariste di età diversa e di diversa formazione si sono incontrate il 13 gennaio al cinema ABC di Bari nell’ambito di una manifestazione declinata al femminile dedicata ad Ipazia, la mitica filosofa alessandrina protagonista del film Agora.
Cecilia Mangini, molese di origine (è nata nel 1927), è vicina al tardo neorealismo, come testimonia la sua collaborazione con Pier Paolo Pasolini e regala delle figure di donne dolenti con particolare attenzione al meridione. In Maria e i giorni (1959) la protagonista a tutto tondo è una donna molto in là con gli anni abituata da tutta la vita a “faticare” in una masseria delle Murge.
Lo sguardo attento e impietoso si ferma sugli abitanti del luogo di diversa età: le donne, gli anziani, gli uomini, i bambini e gli animali che convivono con gli esseri umani quasi in rapporto simbiotico. Il colore enfatizza gli ambienti, la dignitosa miseria di chi, fin dal primo vagito, lotta con la natura e con gli uomini per vivere.
Colpisce la promiscuità notturna, la presenza invadente delle mosche accettate passivamente da tutti. La colonna sonora forte e la retorica voce narrante contribuiscono a dare un’aura cupa all’intera narrazione.
Il Sud arcaico e arretrato torna in Stendalì girato un anno dopo. Qui la collaborazione con Pasolini è più fattiva: sue le parole recitate liricamente da Lilla Brignone. Siamo nella Grecia salentina non terra della taranta presa d’assalto annualmente da turisti italiani e stranieri, ma avamposto di una cultura misteriosa e misterica. La Mangini entra in una casa devastata dal lutto per la morte del figlio giovanetto.
A cerchio davanti alla bara aperta quasi come un sabba (le immagini si fanno crude e forti) donne di ogni età nero vestite muovono fazzoletti bianchi pronunciando una nenìa in una lingua lontana. La regìa si sofferma sui movimenti delle prefiche che ricordano la follia delle tarantolate, gesti tutti uguali eseguiti all’unisono, dolore vero o magico scongiuro per allontanare il fantasma di sora Morte.
Il terzo documentario, Essere donne ci porta al 1965. La regista esplora il mondo della donna che lavora utilizzando dapprima le immagini patinate e a colori della pubblicità poi la fatica in bianco e nero delle lavoratrici di ogni età, ogni luogo prediligendo al solito il sud o chi dal sud si è allontanato per cambiare vita.
Operaie alla catena di montaggio che temono il “tempista” e sperano nella settimana corta per poter avere un po’ di riposo tra lavoro retribuito fuori casa e quello in nero nelle proprie mura, le oggettive difficoltà di chi deve dividersi tra lavoro e bambini mentre la voce fuori campo illustra come sia difficile essere donna senza tutele, senza strutture per i loro figli e se non fosse per le immagini ormai fuori tempo sembrerebbe che in quarantasei anni nulla o quasi sia cambiato…
Stridente è il contrasto con un altro documentario del 1965 Felice Natale dove accanto a bimbi che intonano “Tu scendi dalle stelle” ci sono i poveri polli spennati dalla catena di montaggio e le grosse banconote che girano per preparare una degna festa consumistica in un flusso continuo tra “sacro” o similmente sacro e decisamente profano.
Ultimo documentario della serata Un’ora sola ti vorrei del 2002 omaggio struggente di Alina Marazzi a sua madre Luisa Hoepli deceduta a soli trentatrè anni per un esaurimento nervoso mal curato. Le immagini che si susseguono sono di filmini di famiglia e sono gioiose: seguono la storia della famiglia Hoepli dagli anni Venti fino al 1971 con il tragico epilogo della morte di Luisa detta Lisel.
Il diario, le lettere scritte da Lisel sin da ragazza sono il contrappunto e registrano con fredda lucidità la caduta nel baratro di una ragazza apparentemente felice e privilegiata.
Il filo rosso che unisce i documentari e i lavori della Mangini e della Marazzi, così distanti e così vicine è univoco e chiaro: la condizione della donna. Sia essa una anziana lavoratrice agricola, una operaia o una ricca borghese il peso della sua identità di genere è destinato a farla soffire proprio come il biblico anatema.
Nel 2012 passi sono stati fatti, ma sembra ancora lontana la strada a una autentica e chiara parità e per ora il sentiero, come illustrano le due lucide realizzatrici, è ancora lastricato forse solo di buone intenzioni.
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