Quarto film in concorso al Sudestival 2015 è Anime nere di Francesco Munzi. Ne parliamo con lo sceneggiatore Gioacchino Criaco, autore dell’omonimo libro da cui è tratto il film.
Anime nere
Anime nere è un film decisamente equilibrato ma pieno di contraddizioni. Il regista Francesco Munzi esalta i valori ancestrali della ‘ndrangheta nella Calabria aspromontana, profondamente legata alla religione e alla famiglia. Munzi racconta un mondo nascosto servendosi di un piccolo clan calabrese, con l’intento, probabilmente, di allargare la visione alle dinamiche della vita dell’Aspromonte.
Il regista racconta la storia di tre fratelli, profondamente diversi tra loro, legati dallo stesso sangue e dalle vicende malavitose che intrecciano presente e passato. Egli ci mostra le varie sfaccettature di questa famiglia, decisamente matriarcale, costretta fin dall’inizio a subire il peso dell’uccisione del padre e della mai trovata vendetta nei confronti degli assassini.
Rivalsa che non si compie mai ma che culmina, dopo la morte di uno dei tre fratelli, Luigi, e nella successiva morte di Leo (giovane faccia di questo ovile aspromontano, fortemente fedele alla causa sebbene riluttante nel restare nella terra natia) in un finale intelligente e assolutamente corretto. Non è l’unico lampo di genio del regista che dimostra di poter raccontare una crudele vicenda con una violenza pulita, senza enormi sgorgamenti di sangue, contrapponendo le uccisioni delle indifese caprette.
Forse l’unica pecca registica è la narrazione un po’ lenta nella prima parte del film, ma è quasi irrilevante. Ad affiancare un’ottima regia è sicuramente la grande fotografia di Vladan Radovic. Prova eccellente del cast, che riproduce fedelmente e minuziosamente il dialetto calabrese; in particolare, grandi performances di Peppino Mazzotta e Fabrizio Ferracane, che danno una spinta in più alla narrazione. Il film è verità allo stato puro e nel complesso risulta più che vincente.
MARCO GENUALDO, VA Liceo Scientifico “IISS Galileo Galilei”
Intervista a Gioacchino Criaco
Iniziamo dal soggetto del film Anime nere: ho letto che il regista stava lavorando ad un altro film quando è rimasto folgorato dal suo libro. Vuole raccontarci la genesi del film?
Munzi mi ha detto subito questa cosa –stava lavorando a un altro progetto ed è rimasto folgorato da Anime Nere– a mia volta gli ho confessato che c’erano state diverse offerte per l’acquisizione dei diritti cinematografici del libro, ma quando ho visto l’offerta che prevedeva la regia di Francesco, sono andato a guardami i suoi film precedenti, Saimir e Il Resto Della Notte, e anch’io ho avuto una folgorazione, soprattutto per il suo secondo lavoro.
Ecco, è stato un colpo di fulmine reciproco che ha fatto nascere il film.
Che lavoro è stato fatto di trasposizione dal libro alla sceneggiatura?
Francesco è partito dal libro, ha trasformato in tre fratelli quelli che nel romanzo erano tre amici, li ha portati avanti negli anni e ha dato loro una famiglia. Ha scritto una sorta di continuazione del libro.
Anime nere racconta la ‘ndrangheta, la malavita forse meno raccontata al cinema. Per di più i criminali da lei raccontati sono diversi dal solito, sono colti, preparati. Ci vuole approfondire questo aspetto?
Si, Munzi, come anch’io avevo cercato di fare, è uscito dallo schema solito del bandito affascinante e onnipotente, ma anche piuttosto rozzo. Ha creato dei personaggi veri, con pregi e difetti e lo ha fatto mostrando il loro volto di uomini, perché in fondo al male, per quanto terribili, ci sono esseri umani ed era importante capire le dinamiche e le cause scatenanti del male. Ecco che abbiamo un trafficante duro e puro, un imprenditore borghese con una famiglia splendida e un pastore filosofo.
Per girare Anime nere il regista ha passato un anno e mezzo in Calabria, scelto molti attori non professionisti tra gli abitanti di Africo e collaborato molto con lei. Ci racconta di quel periodo?
Quando Francesco ha fatto la scelta definitiva di utilizzare il dialetto ha compreso che erano necessari attori locali per dare credibilità e forza alla lingua e che gli attori professionisti avrebbero avuto bisogno di un alter ego calabrese sul set. Così si è realizzata una commistione felice fra locali e artisti di fuori. Per mesi si è creata una comunità allargata, gioiosa nonostante la drammaticità del tema trattato.
Era presente durante le riprese? Può raccontarci qualche aneddoto?
Sono stato presente in alcune scene. Per raggiungere l’Aspromonte bisognava percorrere strade i cui tornanti sporgevano su precipizi spaventosi, così una sera una delle attrici ha chiesto di poter restare da sola, tutta la notte, in montagna, per non rifare la strada.. ma non vi dico come è andata a finire.
Se non sbaglio è la prima volta che lavora come sceneggiatore. Che impressione le ha fatto trasporre in immagini un suo libro? E’ un’esperienza che le piacerebbe ripetere?
La sceneggiatura è un altro mondo, molto più complicato della scrittura. Non si è più da soli a cantarsela e suonarsela come si vuole; c’è un confronto serrato, continuo, faticoso. Ma alla fine è bello, appagante quando arriva un risultato buono. Un mondo che mi è piaciuto e spero di rivivere.
Anime nere è stato molto apprezzato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Lei era presente? Com’è stata questa esperienza?
La realtà ha superato la fantasia, perché davvero a Venezia ci sarebbe voluto un romanziere per descrivere l’emozione degli attori calabresi di ritrovarsi, assieme alle star, a percorrere un tappeto rosso che non avrebbero mai sognato li potesse vedere protagonisti.
Ringrazio Gioacchino Criaco per la disponibilità a raccontarci i retroscena di Anime Nere.
Prima di chiudere e dare appuntamento alla prossima settimana per una nuova intervista dal Sudestival 2015 segnaliamo la recensione di un altro film in concorso: I nostri ragazzi.
I nostri ragazzi di Ivano De Matteo
Conosciamo veramente i nostri figli? Quale futuro per la nostra generazione? Siamo davvero “la degenerazione dell’evoluzione“? Questi solo alcuni interrogativi che il regista Ivano De Matteo ci pone con il suo film I nostri ragazzi in cui ritrae in maniera assolutamente veritiera e drammatica la nostra quotidianità. Egli indaga quella frattura incolmabile che si è ormai creata tra genitori e figli che non si riuniscono più nemmeno a tavola.
In questo modo, come le famiglie possono dire di conoscere i propri figli? I due protagonisti, appena sedicenni, Benedetta e Michele, cugini, figli di fratelli della Roma bene, apparentemente ragazzi tranquilli, vengono ripresi nella vita di tutti i giorni, anche nella loro passione per serie web violente, finché una sera, di ritorno da una festa uccidono per futili motivi e con sconvolgente freddezza una barbona.
La brutalità e inumanità dei ragazzi tramortisce i genitori a tal punto che preferiscono rifugiarsi in autoinganni pur di affrontare la realtà e le loro responsabilità. Ma si può definire superficialità la presunzione di poter togliere una vita ad una donna? Pertanto, nel finale a sorpresa, di fronte alla proposta del padre di Benedetta di fare costituire i propri figli, il padre di Michele, il personaggio che all’inizio del film era stato delineato come il più attendo dei due fratelli ai diritti umani e all'”altro”, uccide suo fratello. Ma può l’amore di un genitore per il proprio figlio spingersi a tanto?
Un film meritevole, un buon prodotto, che lascia davvero senza parole.
ILARIA SCALISI, IIIA Liceo Classico “IISS Galileo Galilei”