#Venezia74: Presentato in Concorso qui alla Mostra del Cinema di Venezia, Mektoub, my love: Canto Uno, il sesto film del regista tunisino Abdellatif Kechiche, vincitore della Palma d’oro con il suo ultimo film La vita di Adele (2013), risulta essere meno efficacia dei precedenti ma non per questo porterà a dividere critica e pubblico tanto quanto il precedente film, lontani oramai dall’efficacia di un lavoro come Cous Cous (2007).
Mektoub, my love: Canto Uno
Premettendo che lo stesso regista ha annunciato che questa è una prima parte di un’opera più ampia che scopriremo nel corso dei prossimi anni, e che quindi un giudizio complessivo forse lo si potrà dare solo allora, Mektoub, my love: Canto Uno è un film sulla formazione, sul passaggio che dalla giovinezza ci porta sino all’età adulta.
Kechiche riesce come pochi altri a scrivere sin dall’inizio del film dialoghi che graffiano per la loro semplicità e verosimiglianza, accompagnandoli da lunghi silenzi e piani sequenza che riescono a far perdere la condizione del tempo.
Risulta poi ottimale la scelta di un cast che, sotto le sue sapienti mani, riesce a dare il meglio di sé. Kechiche utilizza i loro volti e i loro corpi che parlano più delle lunghe discussioni che avranno, inondandoli continuamente di luce e di una forza vitale che poi sembra, col tempo e con la crescita, perdersi.
La scena iniziale, poi, racconta sin da subito i caratteri dei protagonisti e la loro condizione all’interno dell’opera: abbiamo il protagonista Amin, ragazzo preda per tutto il film di un voyeurismo forsennato, che osserva una lunga scena di sesso che si sta svolgendo in casa di Ophelie (Ophelie Bau, una stella nascente), ragazza oggetto delle attenzioni dei più per la sua bellezza e la forza vitale che possiede e non nasconde. Lei è nel mezzo di un rapporto sessuale con Toni, cugino di Amin e amante di Ophelie, sciupa femmine che diversamente da Amin vive senza stare lì a riflettere sulle conseguenze delle cose.
E il film poi sta tutto lì. Arriveranno delle belle e giovani turiste. E ci saranno le famiglie dei nostri protagonisti e un’estate in cui avviene tutto e nulla. Ed è proprio questo il centro del discorso di Kechiche. Il problema è che pecca di forte presunzione. Se l’intento è buono e lo svolgimento parte e prosegue bene, l’ultima ora esplode di ingordigia verso questa gioventù (bruciata? il film comunque è ambientato nel 1994) e chiude con un’ovvietà che ci porta a chiedere quanto necessario fosse far durare il film 180 minuti quando il discorso era chiaro sin dall’inizio e perché, se davvero la durata prevista era questa, non costruire anche una narrazione, un arco più chiaro per le mille parole e situazioni in cui i personaggi vengono immessi. Fra tutti, a dare più fastidio è proprio il protagonista Amin, perché non basta la scena finale a risolvere i mille quesiti sul suo totale distacco dalla vita, dall’amore, dalle cose. Ama Ophelie che lo vede (forse) solo come un amico e nelle mille occasioni in cui gli si propone di vivere, divertirsi, amare o farsi male preferisce restare lì a guardare, quasi come fosse esternazione del regista, occhio che guarda su tutte le cose (Amin vuole, tra l’altro, diventare proprio un regista da grande).
Insomma, l’osannare questa operazione che è tutto meno che originale negli obbiettivi che si prefigge sembra davvero un paradosso. Per quanto va dato merito a Kechiche di saper scrivere divinamente dialoghi che fanno scorrere il tempo e fanno, a volte, rabbrividire per quanto verosimili e concreti. Detto ciò, siamo lontani dal suo precedente lavoro come dai suoi esordi e la paura è che qualche premio di troppo gli abbia dato una libertà allucinata che potrebbe portarlo a fare un grosso passo falso in futuro. Per un giudizio finale, però, aspetteremo i capitoli successivi a cui pare stia già lavorando.