Alfred Hitchcock: Amabili resti del cinema d’autore

Sono andato a scovare un vecchio volume “Il cinema secondo Hitchcock” in cui un giovane Francois Truffaut incontra per una serie di spassose interviste uno dei padri assoluti del cinema thriller.

Andando a sfogliare il libro ho ritrovato sottolineature, appunti e altro che mi sono balzati alla mente legandoli ad una pellicola già recensita da cinemio.it dalla nostra Paola Orsini, “Amabili resti” di Peter Jackson.

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Sono “inciampato” ultimamente in uno dei volumi che affollano la mia libreria, nel settore cinema e dintorni.
Spolverare i libri è un pò come riportarli in vita dopo un sonno più o meno profondo.

Dice Hitchock: “Quando si racconta una storia al cinema, non si dovrebbe ricorrere al dialogo se non quando è impossibile fare altrimenti. Mi sforzo sempre di cercare per prima cosa il modo cinematografico di raccontare una storia per mezzo della successione delle inquadrature e delle sequenze”.

Jackson, nel suo film, affida i momenti migliori alle immagini ed ai colori/sentimenti della protagonista, suggerisce gli stati d’animo con tagli ed inquadrature perfettamente aderenti allo sviluppo dell’azione, ci porta emotivamente la dove nessun dialogo potrebbe risultare rivelatorio.

Prosegue sempre Hitchcock: “Sono convinto che le sequenze di un film non devono mai procedere con lentezza, ma sempre in modo che l’azione si sviluppi, come un treno che avanza incessantemente o che sale la ferrovia di montagna tacca per tacca”.

Jackson sembra aver imparato la lezione del maestro (anche se in diverse interviste ne prende le distanze se non per affermare una sua personale visone del cinema); “Amabili resti” procede incessante, lungo il suo cammino in salita, come il treno di cui sopra, è una fermata in ogni stazione della storia, che prosegue per accumulo di suspance.

“Per produrre suspance, nella sua forma più comune, è indispensabile che il pubblico sia perfettamene informato di tutti gli elementi in gioco, altrimenti non c’è suspance” afferma Hitchcock;

nel film di Jackson siamo informati di tutti i fatti, di come agisce l’assassino, di cosa sta cercando di fare la protagonista, di come la famiglia reagisce al tragico avvenimento e ancor di più di ciò che sta per accadere di nuovo. Jackson sembra volerci portare sino in fondo mostrandoci tutte le sfaccettature dei personaggi e dei loro animi “malati” (la madre che, sconfitta, abbandona la famiglia, il padre che non si rassegna all’accaduto e cerca di far catturare l’assassino, la nonna alcolizzata, l’assassino morboso), riuscendo a farci sentire parte della vicenda, non semplici spettatori.

Conclude Hitchcock: “In alcuni casi il lieto fine non è necessario; se riesce a esercitare una forte presa sul pubblico, questo ragionerà con lei ed accetterà una fine sfortunata, a condizione però che, durante il resto del film, abbia ricevuto stimoli sufficienti per interessarsi alla vicenda”.

“Amabili resti” non ha un bel lieto fine, la tragedia si è ormai consumata ed anche se si assiste ad uno scampato pericolo e l’assassino viene “punito” per i suoi atroci delitti, rimane quella tristezza di fondo per non aver potuto far niente di fronte agli avvenimenti, se non osservarli da molto vicino con un senso di dolore. Non se ne esce vinti ma si accetta il finale come conseguenza della storia/vita che il regista ci ha mostrato permettendoci di permeare le nostre sensibilità con quelle dei protagonisti nella vicenda.

Senza l’esigenza di cercare paragoni tra le due figure registiche si assiste ancora una volta ad una lezione magistrale di cinema , di quel cinema che non lascia indifferenti ma riesce ad entrare sotto pelle, nelle pieghe delle nostre paure e delle nostre più indescrivibili ossesioni.

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