Presentato in occasione del 25 aprile nell’ambito del Bif&st – sezione Anteprime Internazionali, La Douleur è un adattamento del romanzo omonimo di Marguerite Duras, scritto nel 1944 come un diario intimo, tra l’autobiografico e la finzione letteraria, e pubblicato poi a 40 anni di distanza, nel 1985.
Diretto da Emmanuel Finkiel, che aveva letto per la prima volta il libro a 20 anni e ne era stato fortemente impressionato a causa delle somiglianze con la sua storia familiare, La Doleur è (magistralmente) interpretato da Mélanie Thierry (Marguerite Duras), Benjamin Biolay (nel ruolo di colui che diverrà l’amante della scrittrice, Dionys Mascolo), Benoît Magimel (Pierre Rabier, l’ambiguo collaborazionista), Grégoire Leprince-Ringuet (François Morland, pseudonimo che usava François Mitterrand, allora capo del gruppo di resistenti) e Emmanuel Bourdieu (Robert Antelme, il marito deportato della protagonista).
La Douleur
Ad evidenziare subito l’importanza del punto di vista soggettivo, il film inizia in voice-off, con le parole stesse di Marguerite Duras: “il telefono, è a fianco a me. A destra, la porta del salone e il corridoio. In fondo al corridoio, la porta d’ingresso. Potrebbe ritornare direttamente, suonerebbe alla porta d’ingresso: “Chi è? – Sono io”. Siamo all’interno di casa sua, a Parigi, nel 1944, in piena occupazione.
Suo marito, Robert Antelme, intellettuale e membro di spicco della Resistenza, è caduto in un’imboscata insieme al resto del suo gruppo, di cui anche lei fa parte. Grazie a François Morland, nome “di battaglia” di François Mitterrand, lei riesce a scappare ma lui viene arrestato e deportato. Da quel momento, la Duras si impegna a far di tutto per farlo ritornare, anche avere a che fare con un equivoco collaborazionista che sembra più interessato a lei come donna che a darle un effettivo aiuto, non si capisce se per circuirla ed ottenere informazioni sugli altri membri del gruppo di resistenti o se perché semplicemente affascinato dalla giovane scrittrice.
A fine guerra, i campi sono ad uno alla volta liberati e i prigionieri tornano a casa in convogli interi. Tutti, meno Robert. In una Parigi che gioisce per la liberazione, la Duras è ancora chiusa nel suo “dolore” e nell’attesa di un ritorno che non si sa se avverrà mai. E che, quando avviene, forse si accorge di non volere fino in fondo, di non volere più davvero. Di avere “interpretato” quel “dolore” fintanto che era “virtuale”, non concreto, un’idea di qualcuno che non c’è e che si vorrebbe riavere. Ma che nel momento in cui realmente torna, che a quell’idea si sostituisce una persona in carne ed ossa, annientata, ferita, diventata lo spettro di sé, ci si rende conto di non essere più sicuri di ciò che davvero si voleva.
La Douleur di Marguerite
Il “dolore” di Marguerite è un dolore contraddittorio, duplice, in bilico tra il sentimento reale e l’immaginazione di quel sentimento, l’idealizzazione che lei, scrittrice, ne fa quasi inconsapevolmente. La finzione, di lei che scrive e racconta la sua storia di donna, di moglie in attesa del ritorno del marito deportato, e l’autobiografia, il suo essere veramente il personaggio di cui sta scrivendo. Il suo senso di estraniamento è visivamente sottolineato dallo sdoppiamento effettivo in alcune scene, in cui compaiono due Marguerite/ Mélanie Thierry, una che fa le cose (si veste, si prepara, attende) e una che si guarda far le cose, dall’esterno. Quasi come se non la riguardasse, se non fosse veramente lei a vivere quella situazione.
Le parole pronunciate in apertura, “Potrebbe ritornare direttamente, suonerebbe alla porta d’ingresso: “Chi è? – Sono io”, sono ripetute più e più volte, come una litania, un mantra che si recita per ancorarsi alla realtà, per rendere concreta e quotidiana una condizione talmente impensabile, irreale, distante, da risultare inconcepibile. Con le parole scritte Marguerite tenta di esprimere su carta l’inesprimibile della circostanza, e di donare un senso e fare ordine tra i suoi sentimenti confusi e contrastanti.
La Douleur – Marguerite e il suo amante, Dionys MascoloDa una parte, la consapevolezza del suo ruolo, di “moglie in attesa”, di compagna del combattente, di non-ancora-vedova la cui vita è bloccata, sospesa, in stand-by fintanto che non si scioglie l’atroce dubbio sulla sorte del marito; dall’altra, le sue emozioni di donna, divisa tra la fedeltà all’idea del compagno scelto e l’attrazione nei confronti dell’amante, Dionys Mascolo (Benjamin Biolay), con cui aveva già una relazione e per cui stava lasciando il marito, poco prima che quest’ultimo venisse deportato.
Marguerite vive come in una bolla, chiusa dentro le mura di casa sua, con qualche puntata nel mondo fuori, che continua ad andare avanti mentre il suo rimane immobile. In un tempo anche filmico estremamente lento, che ad un certo punto riaccelera quando Robert Antelme, il marito, viene ritrovato, riportato a casa, ridonato a lei da quelle stesse persone che avevano contribuito ad allontanarglielo, a renderglielo così distante – il suo amante, Dionys, il capo del gruppo politico, François Morland/ Mitterrand. E lei crolla.
Riacciuffata così pesantemente dalla realtà, la prima reazione di Marguerite è il rifiuto totale, la crisi, il rigetto: lei, intellettuale, poteva vivere nel limbo di quel suo dolore cristallizzato e sublimato nella scrittura nell’idealizzazione sia del suo personaggio di vedova dolente in attesa sia di quello del marito, eroico prigioniero politico disperso e, lentamente, cancellato dalla sua vita attuale. Ma non altrettanto bene le riesce di vivere concretamente con quell’uomo, che già voleva lasciare, che è ritornato ed è il fantasma di ciò che era in precedenza, che va curato, assistito, compreso. Che limita la sua libertà e la riporta al passato, che le impone il senso di colpa del suo tradimento, il peso della scelta che lei non voleva compiere – lasciarlo ora che è tornato, ora che è ferito, dopo che è stato deportato.
I tormenti interiori della donna sono resi perfettamente dall’intensa interpretazione di Mélanie Thierry, formidabile in questo difficile ruolo.
La Douleur dell’Attesa e degli Altri
Parallelo al dramma individuale della donna Marguerite, e alla ricostruzione intellettuale che di quel dramma fa il suo lato “scrittrice”, la Duras, si svolge il dramma universale della storia. Che rimane in qualche modo da sfondo, salvo irrompere e farsi vedere – anche da Marguerite, pur se chiusa nella sua bolla, nel suo “Douleur” privato e personale.
Lo avvertiamo nei convogli di prigionieri che tornano. Lo intuiamo nella violenza melliflua dei modi del collaborazionista, che usa la sua posizione di presunto potere per forzare la mano, per indagare, o anche semplicemente per cenare con una bella donna (che altrimenti, come lui stesso ammette, mai sarebbe stata lì, e che si fa “bella”, mettendo gli abiti dai colori più sgargianti del film, proprio per lui, forse anche per continuare a sentirsi donna).
Lo tocchiamo con mano in due personaggi all’antitesi, la vicina di Marguerite, Madame Bordes, che cade in depressione convinta che il marito non possa tornare quando invece ritornerà, e Madame Katz, che si installa a casa della scrittrice aspettando fiduciosamente il ritorno della figlia, che invece non tornerà mai, anche se lei in qualche modo non potrà mai smettere di sperare.
Il dramma della storia si esplicita nella scoperta, prima in sordina, quasi sussurrata, poi sempre più certa, del motivo per cui Robert non tornava, non era presente nei convogli dei primi prigionieri liberati dalla fine della guerra: perché era stato deportato nei campi di cui nessuno, ancora sapeva l’esistenza. In quelli da cui era più difficile tornare. In quelli di concentramento. E allora la Douleur è anche il dolore del negazionismo, del non-riconoscimento da parte dello stato, dell’ignoranza del problema, della solitudine e dell’isolamento di chi lo viveva in prima persona. Di quella distorsione stridente che sente Marguerite quando fuori Parigi balla la liberazione e lei, dentro il suo appartamento, è ancora prigioniera dell’incertezza di non sapere se, quando – e come – suo marito tornerà.
Bilancio finale
I colori tetri della fotografia, il ritmo lento che scandisce la pesantezza dell’attesa, l’intensità sia delle tematiche sia delle interpretazioni ne fanno un film da “affrontare” con lo spirito giusto (non proprio “alla leggera”, per intendersi). Chi aveva in precedenza letto il romanzo della Duras afferma che, per una volta, la resa cinematografica non è inferiore a quella letteraria e, in generale, La Douleur è sicuramente un’ottima prova a livello registico ed uno sfoggio di notevole bravura da parte dell’interprete principale, Mélanie Thierry.
La douleur: Emmanuel Finkiel presenta il film al BIF&ST 2018
Il regista Emmanuel Finkiel ha presentato il film in anteprima al BIF&ST 2018: in questi video parla della genesi del film a partire dal libro di racconti omonimo e autobiografico di Marguerite Duras e la difficoltà nel portare il scena il libro cercando di andare oltre i clichè del periodo storico alimentandosi degli archivi dell’epoca, e racconta della fase delle riprese e del cast formidabile.