#Venezia74: Arriva un outsider di questo Festival del Cinema di Venezia, direttamente nella sezione Orizzonti: Gatta Cenerentola, film diretto da Alessandro Rak (già distintosi per L’arte della felicità nel 2013), Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Dario Sansone, registi che partono da una delle novelle contenute ne Lu cunto de li cunti (Il racconto dei racconti) di Giambattista Basile per raccontare la storia intramontabile di Cenerentola, vista e riscritta in un presente che è anche passato e futuro, dentro una metafora del crescere e dell’andare avanti, in una storia dove i veri protagonisti sono il passato e la memoria.
Gatta Cenerentola
Si apre come pura poesia quest’animazione bidimensionale che ricorda quella francese e belga, questi colori pastello in cui troviamo la piccola Mia (chiamata Gatta Cenerentola, appunto) vivere dentro un’immensa nave attraccata al porto di Napoli.
Nuovamente ci affacciamo ad un racconto partenopeo (dopo i Manetti Bros.) eppure Napoli non la vediamo mai, è sempre distante, cupa, sporca, incattivita, quasi come una Gotham di un futuro distopico. L’escamotage del padre amorevole che viene a mancare e della matrigna con le sorelle s’imbruttisce in una storia che perde qualsiasi richiamo favolistico per imprimersi di verismo, di cruda realtà, in cui crescere non è una bella storia, specie se hai un patrimonio che interessa a molti e un animo ancora puro ed incontaminato.
Gatta Cenerentola ha il coraggio di citare opere com Titanic o il Tornatore di La leggenda del pianista sull’oceano senza perdere un’identità propria, innestando sin da subito il clima di un racconto che ci appartiene eppure risulta distante, adatto ai grandi ma anche ai piccoli e in cui non manca il sangue, le parole forti e la semi-nudità, forte di references orientali a cui questo progetto appartiene, in qualche modo.
E come dicevo in testa a questo articolo, protagonisti sono il passato e la memoria, non solo quella diegetica al racconto: il padre di Mia ha installato sulla nave un dispositivo che ripropone come fantasmi degli ologrammi dei ricordi vissuti all’interno della nave stessa, ma anche e soprattutto quelle a monte del progetto, il racconto di una Napoli che fa tanto soffrire e che non riesce a liberarsi da queste costrizioni politiche, sociali, storiche che la tengono schiava di se stessa e proiettato verso il passato e non verso il futuro.
Poca è la speranza alla fine, se non quella di fuggire. E i personaggi si ergono ad archetipi perfetti dei nomi che portano e del messaggio che si vuole comunicare, stratificato, come ogni film d’animazione che si rispetti, e diretto a tutti.
Un segnale di grande maturità artistica e produttiva, con la speranza che possa essere un’apertura al genere sempre più ampia per il nostro paese e che questi registi non debbano aspettare altri quattro anni per poter fare un altro film. Sdoganiamo anche da questo punto di vista la nostra Italia (in un periodo di effervescenza nel genere), ricordandole che l’animazione non è solo Disney, Pixar, Dreamworks e Blu Sky ma c’è anche tanto, tanto altro.