Sarà in sala dal prossimo 27 luglio Travolti dalla cicogna, di Rémi Bezançon, con Louise Bourgoin e Pio Marmaï. Ecco la nostra recensione in anteprima.
Travolti dalla cicogna
di Igor Riccelli
Basato sul romanzo di Eliette Abecassis, Un lieto evento (Marsilio Editori), Travolti da una cicogna narra le vicende di una giovane coppia di innamorati che, come massima espressione del loro sentimento, decidono di mettere al mondo una nuova vita. I nove mesi di attesa, narrati dal punto di vista della protagonista femminile, il parto e il successivo primo anno di vita della piccola sconvolgeranno i loro piani e li trasformeranno nel profondo, singolarmente e come coppia, in una misura che mai avrebbero ritenuto possibile.
Continua la tragica abitudine, tutta italiana, di cambiare a piacimento i titoli di film esteri spesso, come in questo caso, con esiti pessimi. Un heureux événement, che in italiano suona come “Un lieto evento”, si trasforma così in Travolti dalla cicogna, più adatto a una commedia grottesca che a una riflessione profonda su cosa significhi essere genitori e ancor di più madri, perdendo quella sottile ironia e quello spirito materialista che soggiacciono alla base di tutto il film.
La voce narrante
A guidare lo spettatore nella visione, c’è la voce over/narrante della protagonista Barbara che, normalmente, considero alquanto fastidiosa e semplicistica. Qui invece, oltre a non essere invadente, si rende necessaria per lo scopo stesso che la pellicola si propone, ossia quello di spiegare a chi non li avesse sperimentati direttamente gli effetti, tutti o quasi – fisici ed emotivi, di una gravidanza. Bezançon, da questo punto di vista, centra in pieno l’obiettivo, restituendo allo spettatore una visione intima della maternità, sincera e senza tabù, quasi eccessiva.
La voce over segnala altresì una volontà di non tradire esageratamente il testo originale, mantenendo un legame con le parole scritte su carta. Faticherei a definire questo film una commedia: si sorride spesso, i personaggi sono caratterizzati a tutto tondo e inducono chi li osserva a una certa leggerezza di spirito, ma l’anima della pellicola è profondamente drammatica, seppur (o forse proprio per questo) l’argomento principe sia la vita.
Dopo la prima sequenza, fatta di sospiri e corteggiamento a suon di titoli di blockbuster (Nicolas, il protagonista maschile, lavora in una videoteca), si sentono i pensieri di Barbara che preannunciano il lieto evento: «Eravamo felici, innamorati, liberi, incoscienti…». L’utilizzo del tempo passato è un indizio significativo per il prosieguo del film.
Un approccio non convenzionale ad un argomento spesso considerato tabù
Il regista, con l’aiuto della sceneggiatrice-autrice del libro Abecassis, in neanche due ore di girato riesce a toccare innumerevoli tematiche sfruttando protagonisti, situazioni o semplici sottintesi: dalla paura del fallimento («Saremo in grado, siamo pronti?») nel dialogo tra i due innamorati, alla sensazione straniante di avere un corpo che cresce dentro di sé. Splendida, a questo riguardo, la sequenza del piccolo feto, risultato di un viaggio tra stelle e pianeti, citazione piuttosto evidente dell’epocale 2001: Odissea nello spazio di Kubrick.
L’attesa estenuante, noiosa; la metamorfosi, il rapporto con la nuova vita, l’incontro con l’Altro che «è sradicamento, devozione e abbandono, incontro con l’infinito»; l’antagonismo con la suocera e la volontà di non chiedere aiuto a nessuno; la sensazione del tradimento della verità («Perché mia madre non mi ha mai detto niente?»); la solitudine, che porta Barbara a nuotare in un oceano di paure, fino ad andare a fondo, la ricerca di un nuovo equilibrio e il conseguente allontanamento del partner, definito dalla moderna sociologia “baby-clash” («Eravamo come due continenti alla deriva»).
Alle implicazioni emotive si aggiungono quelle fisiche: «Mi sentivo sconsacrata. Il mio sesso non era più sensuale». La difficoltà nell’affrontare un nuovo approccio fisico con il compagno, dopo la gravidanza, si accompagna alla sensazione fisica di assenza, di vuoto: «Ormai la mia vita non mi apparteneva più. Ero solo un abisso, un nulla. Ero madre». Bezançon ci regala tutto questo e lo fa mantenendo sempre, o quasi, un tono leggero, che non punta tanto sull’emozione facile, quanto più sulla comprensione, la capacità di ascoltare e vedere una realtà altra dal comun sentire, che non è (solo) una culla, un fiocco e parenti in festa.
Il film è diviso in due parti distinte: prima e dopo il parto. Il passaggio dalla fantasia alla realtà è traumatico per Barbara e il regista, con l’aiuto del direttore della fotografia Antoine Monod, sottolinea la frattura con una particolare scelta a livello tecnico: si passa infatti da una regia più fluida ed elaborata, con colori sgargianti, a riprese più serrate effettuate con la macchina a mano e a un tentativo di maggior realismo, a cui contribuisce l’utilizzo di una pellicola che, anziché saturare i colori, li attenua ammorbidendo i contrasti e rendendo il girato più pallido, opaco, insomma reale. Da Gauguin a Caillebotte insomma.
La stessa metamorfosi si fa strada nella protagonista che, parafrasando, passa da una concezione metafisica della maternità ad una materialista, prendendo atto che «i miei studi filosofici mi avevano imprigionata e di fronte alla vita ero totalmente impreparata».
Un heureux événement è, insomma, una “commedia” profonda, che colpisce dritti al cuore (e alla testa), che tenta di riprodurre lo stesso sconvolgimento ormonale, la medesima perdita di orientamento, propri della gravidanza, nello spettatore. Nessuna rivoluzione a livello stilistico, ma un’opera ben confezionata, onesta (non in senso riduttivo), che tenta un approccio non convenzionale ad un argomento troppo spesso considerato come un tabù. Da non perdere.