Incontro con Shirin Neshat (seconda parte)

Come promesso, eccomi qui a riferire sulla restante parte dell’incontro di Shirin Neshat con il pubblico bolognese (la prima parte dell’intervista alla regista iraniana). La regista di Donne Senza Uomini, il film Leone d’Argento all’ultima Mostra di Venezia, ha affrontato diversi argomenti: il rapporto fra autorialità e lavoro in team, la trasposizione cinematografica di un libro, e il ruolo degli iraniani in esilio. Ma soprattutto, ha suggestionato i presenti parlando del “popolo dell’immaginazione”…

Rispetto alla fotografia o alla videoarte, nel cinema il team di lavoro è più complesso. C’è il rischio di perdere la precisione, e la propria autorialità?

In realtà io ho sempre lavorato in modo collaborativo, avvalendomi di designers, artisti, musicisti eccetera: questo non ha mai compromesso la mia idea di leadership. E’ come avventurarsi insieme in un territorio sconosciuto, senza sapere cosa si troverà; inoltre nel cinema ci si trova davvero immersi in una comunità di persone, ed il processo creativo ha bisogno del confronto con il gruppo. L’intuizione, da sola, non basta. In questo caso molti della troupe erano iraniani, e con loro ho condiviso una sorta di “esilio collettivo”.

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(autoritratto di Shirin Neshat, da Ascmag.com)

Che cos’è per te il politico nella costruzione di un’opera d’arte?

Credo sia impossibile essere iraniani e non essere ossessionati dalla politica: è al tempo stesso una fortuna e una maledizione. Vorrei che un giorno potessimo non avere più questa ossessione, perché deriva dal fatto che tutti noi iraniani siamo in una posizione vulnerabile. Non possiamo concederci il lusso di tenere le distanze dalla politica: chi si trova in patria fronteggia la censura e il rischio di arresto; chi come me è in esilio soffre la lontananza dai propri cari, e la mancanza di accesso al luogo natale.

In particolare gli artisti, ovvero il popolo dell’immaginazione, sono una costante minaccia per il governo. Jafar Panahi, ad esempio, viene trattato così perché è un grande regista [applausi in sala. Panahi era stato arrestato pochi giorni prima a Tehran]. Questo rende l’Iran un paese unico, dove gli artisti hanno molta più influenza che nelle altre società.

Perché per il film sei partita da un libro, e da questo in particolare?

L’autrice, Shahrnush Parsipur, è una delle più importanti scrittrici iraniane. Ha pubblicato “Women Without Men” nel 1990, a causa del quale è stata in carcere per cinque anni, e adesso vive in esilio. Di questo libro mi sono innamorata, ritrovandomi nel suo realismo magico, nel suo dualismo tra allegoria ed attualità. E l’approccio dualistico sta alla base di tutto il mio lavoro di artista, forse perché vengo dal confine tra Oriente e Occidente: le contraddizioni mi abitano, io incorporo i conflitti nella mia persona.

Questo libro tiene un piede in questioni filosofiche, che interessano tutti, e un piede nella realtà storica dell’Iran: con alla base un’idea di libertà, democrazia e indipendenza. Tutto ciò è anche una questione estetica, perché la bellezza è critica. E’ radicalità critica. Non posso mostrare la bellezza senza far vedere la violenza che la circonda, e la bellezza non esiste senza la bruttezza.

E per finire, in attesa di vedere il film, ecco un paio di approfondimenti sulla sua opera di artista visuale:

2 Comments

  1. Massimo Balducci

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