In Vogue: The 90’s, attesissimo documentario sulla moda e I costumi dell’ultima decade dello scorso secolo e millennio, arriva su Disney+ diviso in due parti: il Volume I (le prime tre puntate) il 13 settembre e il Vol. II (puntate 4, 5 e 6) il 20 settembre. Date non casuali: la prima coincide con l’inizio della Settimana della Moda londinese, la seconda con quello della Fashion Week a Milano. D’altronde, quali giorni migliori per immergersi nei meandri e nei dietro le quinte della storia della moda e della cultura pop?e
Il documentario, diretto da Matthew Hill e prodotto da sua maestà Anna Wintour – insieme ai fidi collaboratori Hamish Bowles, Edward Enninful e Tonne Goodman – straborda di partecipazioni eccellenti. Per citarne alcune, Amber Valletta, Baz Luhrmann, Claire Danes, Claudia Schiffer, Elizabeth Hurley, Gwyneth Paltrow, Hillary Clinton, Jean Paul Gaultier, John Galliano, Kate Moss, Kim Kardashian, Linda Evangelista, Mary J. Blige, Missy Elliott, Miuccia Prada, Naomi Campbell, Nicole Kidman, Sarah Jessica Parker, Stella McCartney, Tom Ford e Victoria Beckham. Scusate se è poco (e manco son tutti!).
In Vogue: The 90’s
Due “Volumi”. Cioè, due parti. Divise ognuna in tre capitoli. Tre episodi da un’ora circa incentrati su una diversa tematica, un punto di svolta cruciale nella storia del fashion system di quegli anni. E degli anni a venire.
Si inizia con l’arrivo di due – tanto per rimanere in tema – pezzi da novanta: Anna Wintour, angloamericana dal 1988 alla testa dell’edizione USA di Vogue. E Naomi Campbell, modella superstar, iconica, leggendaria, protagonista tra l’altro di recente di un leggero quiproquo, una parvenza di battibecco proprio con la stessa Wintour durante la consegna del Fashion Icon Award.
Il primo episodio è interamente dedicato alla presa di “potere” di queste due figure, Anna a capo del giornale che detta legge nelle tendenze fashion del mondo intero e Naomi a capo di quel manipolo di bellone che hanno per prime fatto diventare le modelle delle celebrities, amate, imitate e invidiate su scala planetaria.
Il secondo episodio tratta dello street style, del grunge (cordialmente detestato dalla Regina Anna) e dell’avvento degli stilisti ribelli inglesi – da Galliano al mitico e compianto Alexander McQueen.
Si passa poi per la “fusione” con Hollywood (chi si ricordava che una volta sui red carpet degli Oscar gli attori andavano in jeans e giacchetta?). E, con il Volume II (disponibile dal 20 settembre), si approfondisce la storia del Met Gala (ep. 4), l’influenza dell’hip-hop sulla couture (ep. 5). Per concludere con l’esplosione degli stilisti americani (molto aiutati, va detto, dalla simpatia incondizionata di Wintour) nell’episodio 6.
Insomma, tra moda, musica, video, cinema, attori, VIP e quant’altro, una panoramica completa della cultura e dello showbusiness anni ’90.
Un documentario imperdibile per gli amanti della moda, dei favolosi anni ’90 e della cultura pop (ma non solo)
In Vogue: The 90’s spazia talmente, è così ricco di aneddoti, ricordi, documenti d’epoca, canzoni, che permette un reale tuffo nell’atmosfera incandescente e creativa di quegli anni. Offrendo a chi c’era di riviverli o scoprirne aspetti inediti (qualcuno era al corrente che Mark Wahlberg fosse un rapper scelto come modello per la campagna Calvin Klein con l’allora sconosciuta Kate Moss, per esempio?). E a chi non c’era, l’occasione per conoscerli e apprezzarli.
A differenza di altri prodotti del genere, il bello di questo documentario è che non è (perlomeno, non è SOLTANTO) autocelebrativo. È presente della nostalgia? Sì, indubbiamente. In particolare, quando si parla di chi non c’è più – oltre al già citato enfant terrible, Alexander McQueen, il geniale e altrettanto compianto Gianni Versace. Uno dei pochissimi stilisti italiani presenti, tra l’altro, a sottolineare ancora una volta la predilezione per gli anglofoni di Wintour.
Però c’è anche qualche – velata – ammissione di colpa. Qualche ricordo non omesso di quanto il mercato della moda e in generale il mondo dello spettacolo fossero razzisti all’epoca. Quanto alcune campagne, apertamente sessiste, non potrebbero farsi ora. Quanto, insomma, alla fine siamo andati avanti e migliorati. E quanto di recente sia successo – che ha sempre dell’incredibile quando ci fermiamo a considerarlo.
In compenso, se su questo fronte è innegabile l’evoluzione, dal punto di vista creativo sembra vero l’opposto. L’aria di innovazione, la verve, l’inventiva, la capacità di arrangiarsi con mezzi di fortuna e la scintilla del genio che brilla negli occhi e nelle trovate dei protagonisti di quegli anni pare persa per strada. Erano giovani? Certo. Wintour dice che erano anche molto liberi. Non so se il problema è che ora lo sono di meno. Sicuramente, però, erano meno artificiali. Meno legati a schermi e tecnologie. Toccavano con mano. Strappavano, a volte. Cucivano. Giocavano.
Un po’ come i bambini, anche attuali, che se li metti davanti a un computer ci si attaccano fino a non poterne fare a meno ma quando li abitui a un cartone e due pezzi di legno riscoprono la capacità di immaginarsi tutto ciò che non hanno.
Forse alla fine il segreto è proprio lì: l’immaginazione nasce dalla mancanza.
In quegli anni, di immaginazione ce n’era molta. E, di quel tipo di immaginazione lì, forse, tutti noi ne sentiamo un po’ la mancanza.
Bilancio finale di In Vogue: The 90’s
Consigliato. Considerato poi che il marchio distintivo dell’Imperatrice Wintour (cresciuta in potere nel corso di questa stessa recensione) – vale a dire la commistione tra le varie arti – adatto anche a chi non ha un interesse particolare nella moda ma è solo curioso di rivivere i costumi del nostro passato prossimo. Piccola nota a latere: nel momento in cui le viene chiesto se voglia togliersi gli immancabili occhiali neri nascondiruga e lei risponde con un perentorio e laconico “No”, Anna Wintour è la personificazione di Miranda Priestly de Il diavolo veste Prada. E viceversa, ovvio. Fiction e realtà ormai si sovrappongono. Fino a confondersi.