Sbarca in tutto il mondo su Disneyplus, a partire dal 12 novembre, Dopesick, mini-serie tv di soli 8 episodi che negli Stati Uniti aveva esordito su Hulu.
Creata da Danny Strong e basata sul saggio-inchiesta di Beth Macy sulla grande crisi di dipendenza dagli oppioidi in America e sulle responsabilità delle case farmaceutiche nella faccenda, si avvale di un cast di primordine, da Michael Keaton a Rosario Dawson, passando per Peter Sarsgaard (Blue Jasmine, The Lost Daughter), Will Poulter(The Chronicles of Narnia, The Maze Runner) e la bravissima Kaitlyn Dever (nominata al Golden Globe per la serie Netflix Unbelievable).
Dopesick
Alternando flashback al presente dell’inchiesta, Dopesick ci presenta la vicenda della diffusione dell’OxyContin, un antidolorifico a base oppiacea prodotto dalla Purdue Pharma, la società farmaceutica di proprietà della famiglia Sackler.
L’intera famiglia, ma in particolare le ambizioni del rampollo Richard (Micheal Stuhlbarg), capo delle ricerche e del marketing e primo responsabile dello sviluppo e del lancio sul mercato del famigerato farmaco pain killer, verranno messe sotto accusa per gli inverosimili danni e la dipendenza causate dal medicinale. Privi di scrupoli e interessati ai profitti sopra ogni cosa, i Sackler spingeranno in ogni modo, lecito o meno, l’OxyContin, nascondendo gli effetti di forte dipendenza che provoca.
Dopesick – le prospettive
In parallelo, ci viene raccontata la vicenda dalle diverse altre prospettive:
quella dei medici, in particolare del dottore Samuel Finnix (Michael Keaton), che in perfetta buona fede viene convinto dell’efficacia di questo antidolorifico e che, dopo alcuni dubbi iniziali, lo prescrive ad una serie di suoi pazienti, per poi, in un flashforward al momento del processo, sentire il peso del senso di colpa per tutte quelle vite distrutte dal farmaco;
quella delle vittime, i pazienti divenuti dipendenti alla stregua di drogati, come la minatrice Betsy Mallum (Kaitlyn Dever), che inizia a prendere l’OxyContin dopo una brutta botta alla schiena durante il lavoro;
quella dei rappresentanti (come Billy Cutler/ Will Poulter), incentivati in vario modo a vendere sempre di più, che fugano gli eventuali dubbi per la smania di battere i colleghi e grazie alle sottili manovre motivanti dei vari boss, primo fra tutti il solito Richard.
Quella, infine, di coloro che iniziano a sospettare del marcio e avviano un’inchiesta, i detective e agenti federali Rick Mountcastle (Peter Sarsgaard) e Bridget Meyer (Rosario Dawson).
Punto in comune tra tutti, l’essere afflitti chi più chi meno da una sofferenza, che sia fisica o psicologica – come il lutto per la moglie morta (il dottore), l’amarezza per un brutto divorzio (l’agente Bridget), l’umiliazione di essere sempre il “rampollo” che deve dimostrare ai “grandi” il suo valore pur se ormai quasi cinquantenni (Richard Sackler/ Micheal Stuhlbarg).
Il trailer della serie
Una fiction che oscilla tra lo stile dell’inchiesta giornalistica e quello della ricostruzione documentaria (all’americana)
In un periodo in cui l’industria farmaceutica è già oggetto di mille sospetti da parte di complottisti e non, una serie come Dopestick certo non aiuta a distendere gli animi. Anzi. Vedendola, sapendo che, pur se romanzata, è tratta da una storia vera e che le informazioni che dona sull’intera vicenda sono reali, vien ancora di più da porsi dei quesiti e da immaginare i grandi boss delle aziende produttrici di medicinali come “Il Male” o giù di lì.
L’approccio della serie è, infatti, il documentario all’americana, dove tutto ciò di cui si parla è vero e documentato, ma una serie di personaggi sono completamente inventati, il più verosimilmente possibile a come potrebbero essere i loro equivalenti reali.
Ciò che rende emotivamente avvincente la serie, infatti, è l’alternarsi di punti di vista, anche inconsueti. Se, da un lato, quello delle vittime – come il personaggio interpretato da Kaitlyn Dever -, pur se ben tratteggiato, non costituisce di per sé una gran sorpresa, meno scontato è quello dei medici che hanno in buona fede prescritto l’OxyContin o dei rappresentanti che l’hanno promosso.
I protagonisti
Per la prima categoria, un Michael Keaton in piena forma dipinge un ritratto toccante di quel classico “medico di famiglia” che forse, tra l’altro, non esiste più: appassionato al punto da andare a ricordare ad un’anziana paziente di prendere le sue medicine a lavoro finito, coscienzioso tanto da farsi scrupoli e informarsi al meglio delle sue possibilità prima di prescrivere un oppioide, devastato dai sensi di colpa una volta compreso che, a causa delle sue prescrizioni, le vite dei suoi assistiti è stata, se non rovinata, gravemente danneggiata.
Magari fossero – o fossero stati, nel caso della storia vera – così attenti alla salute del paziente i medici tutti! Vero è che, per coloro che lo sono – e ce ne sono – scoprire di avere, in perfetta buona fede, ordinato per i propri assistiti qualcosa che ha nuociuto alla loro salute fino a portare alla morte di molte persone deve essere stato devastante, e questo aspetto, non molto spesso evidenziato, è sicuramente una delle originalità della serie.
A rappresentare, invece, l’altra categoria di protagonisti non sempre considerati nelle narrazioni di vicende di questo genere, il personaggio di Billy Cutler (Will Poulter), il giovane rappresentante di farmaci assetato di soldi e ambizioni, quel classico esempio della banalità del male che farebbe dichiarare alla Arendt “l’avevo detto, io!”, una volta di più confermando la correttezza delle sue intuizioni.
Cutler prende appunti, si guarda qualche volta intorno spaesato quando il dubbio gli attraversa la mente, per poi ricacciarlo nei meandri del suo rimosso non appena si accorge che il resto dei suoi colleghi – in particolare la donna che ha adocchiato – sono già con la scarpa fuori dalla porta, pronti a lanciarsi nelle vendite a tamburo battente come i soldati si lanciano in battaglia. Il ragazzotto è, come di norma accade in queste situazioni, gratificato dall’attenzione dei capi al suo operato e i capi, ben consci, sono pronti a dargli delle soddisfazioni pur di ottenere il massimo dei risultati dalle sue prestazioni.
O meglio, il capo. Perché quello davvero descritto come il deux ex machina, come il principale se non unico responsabile del lancio sul mercato di un farmaco che provoca un’alta dipendenza senza darsi peso di prendere le opportune precauzioni è la figura enigmatica di Richard Sackler, interpretato in modo estremamente particolare, ai limiti del disturbante, da Micheal Stuhlbarg.
Stuhlbarg recita la parte del magnate con una tonalità di voce monocorde, uno sguardo fisso, spesso rivolto in basso o altrove rispetto agli astanti, un sorriso gentile che dà i brividi nell’essere spesso fuori contesto o la chiosa di un discorso in cui di gentile non c’era proprio nulla, e che di conseguenza lo fa stridere come una dissonanza. Il suo Richard sembra vagamente autistico, perlomeno nella rappresentazione stereotipata che di solito se ne fa: completamente concentrato nei suoi – pochi – interessi (in questo caso, i soldi e primeggiare nelle vendite per lasciare il suo segno nella storia), del tutto estraneo ad ogni manifestazione anche lieve di empatia nei confronti di chi gli sta accanto o, meno che mai, del resto del mondo, alquanto privo di quel savoir faire minimo che gli permetta di avere reazioni in linea con le attese del prossimo.
Spietato nel modo più insidioso e inquietante: quello di chi pare, con estrema naturalezza, non avere il minimo scrupolo. Rimorso. Dubbio. Ai suoi collaboratori preoccupati che lo avvisano di problemi eventuali, risponde con la freddezza della distanza, di chi non è minimamente toccato né tantomeno turbato dalla cosa: perentorio, con sorrisino finale. Le buone maniere, sopra tutto. Che tanto del resto, chissenimporta.
Se, per curiosità, andate in rete a vedere il vero Richard Sackler, il modo che a di rispondere all’interrogatorio durante il processo che ha messo in ginocchio l’impero farmaceutico della famiglia, vedrete che in effetti, pur nella sua differenza, il ritratto che ne fa Stuhlbarg coglie un tratto fondamentale della sua personalità: l’assenza più completa di ogni parvenza di rimorso. Dall’alto del gotha di dove vive ed è cresciuto, devono sembrare piccole piccole le vite dei comuni mortali che hanno sofferto e soffrono a causa della sua medicina.
A chiudere il cerchio dei protagonisti, gli investigatori, tra cui Peter Sarsgaard (Rick Mountcastle) e Rosario Dawson (Bridget Meyer), per le prime tre puntate che abbiamo potuto vedere in anteprima senza lode e senza infamia. Loro sono e restano grandi attori, i loro personaggi abbastanza – almeno per il momento – fedeli al classico cliché dell’uno-contro-tutti, di quelli che hanno le buone intuizioni e si devono battere per dimostrarne la giustezza, ecc, senza per ora che, nel farlo, brillino particolarmente per originalità rispetto ad altri. Vedremo se, nelle prossime puntate, trasmesse a partire dal 12 novembre su Disneyplus (come Star Original), ci riserveranno invece delle sorprese inaspettate.
Bilancio finale di Dopesick
A volte un po’ verboso nella sua volontà di spiegare davvero come si sono svolti i fatti, e asciutto, anche nei toni freddi della fotografia, per non eccedere nel facile pietismo e nel sentimentalismo esagerato, Dopesick rimane comunque un buon prodotto che interesserà in particolare chi è già attirato dalla tematica. Non solo i complottisti, ma anche coloro che amano far luce su fatti di cronaca contemporanea e sui risvolti oscuri del capitalismo, in particolare quello dell’universo ambiguo dei colossi farmaceutici, apprezzeranno la miniserie.
Per andare un po’ più in là nell’informazione, si consiglia la lettura del libro che ne è stato la principale fonte di ispirazione, Dopesick: Dealers, Doctors and the Drug Company that Addicted America di Beth Macy. Un titolo, un programma.