#RomaFF12 – Presentato nella sezione Riflessi – Altri eventi della 12esima Festa del Cinema di Roma, arriva In un giorno la fine, film horror prodotto dai Manetti Bros. con Rai Cinema e distribuito da 01, per la regia dell’esordiente Daniele Misischia.
In un giorno la fine
Siamo a Roma in una giornata come tante. Claudio Verona (Alessandro Roja; Song’è napule, L’ora legale) è un importante uomo d’affari. Spietato, sposato e traditore, rimane bloccato nell’ascensore del palazzo in cui lavora mentre fuori scoppia un’improvvisa epidemia zombie.
Visto il tipo di progetto, Daniele Misischia non poteva sperare in un esordio con un appoggio migliore di quello dei Manetti.
La loro mano si sente nella scrittura quanto in alcuni movimenti di macchina arditi e quindi nel progetto in sé: pensato e messo in scena come low-budget, In un giorno la fine segue la regola già espressa e (abbastanza riuscita) dell’ultimo cinema dei Manetti e de Lo chiamavano Jeeg Robot (2016) di Gabriele Mainetti, provando a rendere cioè credibile in un tessuto culturale e storico come quello romano la possibilità reale di un’epidemia zombie, tipicamente legata per il pubblico ad un panorama fino ad ora americano o anglosassone.
Certo è che bisogna avere la mente aperte ed essere consci di trovarsi davanti ad un b-movie ben congegnato che incentra tutto su un Alessandro Roja che riesce a tenere discretamente la scena, con un commento musicale semplice ed azzeccato.
In un giorno la fine – il trailer
https://www.youtube.com/watch?v=vE4k9-4-1bg
La sceneggiatura, scritta anche dal regista, non si spaventa a non prendersi troppo sul serio e a provare ad inserire una critica alla situazione romana odierna parallela all’elemento fantasy/horror che racconta. Ed è lì però che è mancato il coraggio: in un finale che cita Boyle ma che non osa per nulla, lontanissimo da Romero e company, si comprende quanto il progetto sia un’occasione mancata di confezionare un horror di buona fattura da vedere e rivedere: è mancato, in sostanza, il coraggio di inserire (o inserire meglio) una lettura politica che di certo avrebbe giovato senza appesantirne la resa.
E forse anche la regia e il montaggio non trovano un ritmo continuo e saldo, tanto che il film sarebbe potuto durare venti minuti di meno e comunicare esattamente le stesse cose, privandosi così di scadere in un (semi)prodotto televisivo anche solo per l’eccesso utilizzo degli establishing shot che danno sì respiro ma tolgono tutta la tensione.