Dal 30 agosto al cinema Un marito a metà, la nuova commedia scritta e diretta da Alexandra Leclère, regista e sceneggiatrice francese da sempre attenta ad analizzare tematiche e conflitti familiari da un’angolazione inconsueta. Anche questa volta la trama ha uno spunto originale, che il titolo francese, Garde alternée – custodia alternata – rendeva maggiormente esplicito. Nel ruolo dell’infantile marito, Didier Bourdon, in quello della tenace e intraprendente moglie, una Valérie Bonneton in piena forma, in quello dell’amante, Isabelle Carrè.
Un marito a metà
Il preambolo del film è un grande classico: marito e moglie sposati da ormai quindici anni, due figli, il trantran quotidiano che uccide la fantasia, un po’ di stanchezza, parecchia noia e, sull’orizzonte, la famigerata crisi da mezza età (inoltrata) del maschio che non si sente più d’essere il seduttore che genetica e società si aspettano sia. La botta di vita si presenta, in un giorno di pioggia, sotto la forma di una bella e – tanto per cambiare – più giovane donna, Virginie (Isabelle Carrè), impiegata nella libreria dove Jean (Didier Bourdon) si rifugia dall’acquazzone. Nove mesi più tardi – il tempo di un bebè, presenza più volte evocata nel film – la legittima moglie, Sandrine (Valérie Bonneton) scopre nell’altrettanto classico modo il tradimento, leggendo messaggini inequivocabili sul telefono del marito (ignaro, come molti, della preziosa funzione “cancella”, evidentemente).
Fin qui, niente di nuovo sul fronte occidentale sentimentale: grande scenata di lei sul luogo di lavoro di lui – una classe universitaria, con tanto di pubblico formato dai suoi studenti –; grande frenata di lui nella storia d’amore con l’altra – “mia moglie ha scoperto tutto, non possiamo andare avanti così, ho dei figli; grandi scuse che insieme sono accuse di lui all’amante, prima, alla moglie, dopo, per tentare di ripristinare lo status quo.
Quando tutto sembra portare all’inevitabile separazione, entra in gioco la madre della moglie che, da brava donna vecchio-stampo, in barba a decenni di conquiste, femminismo e parità, rimprovera la figlia per non aver tenuto gli occhi chiusi di fronte all’adulterio (“che prima o poi arriva nella vita”) e le propina una serie di pillole di saggezza “old-school” da far rabbrividire anche le meno ferventi sostenitrici dell’uguaglianza tra coniugi. Inaspettatamente, Sandrine decide che tutto sommato potrebbe esserci del vero in ciò che dice e propone all’amante di suo marito una soluzione alternativa e originale al problema: come si farebbe con dei bambini, potrebbero optare per una “custodia” alternata del tanto agognato uomo-oggetto del contendere. Una settimana a casa con la moglie, una settimana con l’amante, a casa sua. Win-win, tutti contenti, in particolare il marito, che riesce per una volta, tanto per restare nei luoghi comuni, a ottenere la botte piena e la moglie ubriaca – cioè a non rinunciare a nulla, apparentemente.
Ma poiché bisogna stare attenti a ciò che si desidera, avere moglie e amante a targhe alterne non è quello spasso che inizialmente può sembrare. Un po’ perché in realtà inizia una sottile e sempre più decisa guerra di competizione tra le due donne per ottenere i favori dell’uomo in questione, un po’ perché se l’amante è riconosciuta, e le si fa visita anche con i bambini, alla fine diventa una seconda moglie, alle prese con la quotidianità, e si spegne buona parte del fascino. Un po’ perché soddisfare due, di donne che pretendono e che sono legittimate a farlo, potrebbe non essere di tutto riposo per chi, seppur in crisi, la mezz’età l’ha da un po’ acquisita e superata. Segue serie di situazioni improbabili più o meno divertenti, a seconda dei casi.
Uno spunto interessante purtroppo banalizzato da cliché desueti
Un marito a metà ha vari momenti divertenti, sia grazie alla bravura degli interpreti – in particolare di Valérie Bonneton che si dona con entusiasmo anima e corpo a rendere esuberante il personaggio – sia grazie a quei consolidati equivoci da triangolo amoroso che strappano comunque – a tratti – il sorriso.
La regista e sceneggiatrice Alexandra Leclère ha anche dichiarato che l’idea del tutto le sia venuta dalla sua esperienza personale, nella parte dell’”altra”, l’amante scaricata dal marito scoperto dalla moglie che, pur di non perderlo del tutto, è disposta a dividerlo con la legittima consorte. Se questa connotazione autobiografica può stemperare in parte la sensazione di “datato” di una commedia che avrebbe avuto un maggiore senso probabilmente negli anni ’60, non basta a perdonarle gli aspetti stridenti ed eccessivamente retrogradi della trama.
In piena epoca di emancipazione – vera o presunta – femminile, vedere due donne disposte a una lotta senza esclusione di colpi per mantenere al proprio fianco il loro “uomo” lascia francamente perplessi. Non solo e non tanto perché – per quanto simpatico – Didier Bourdon non ha né il phisique du rôle né il carisma sufficiente a giustificare l’investimento di tempo ed energie per trattenerlo a sé messo in atto dalle due rivali. Ciò che più risulta inaccettabile è quella mentalità pre-divorzio, quella rassegnata accettazione del tradimento come inevitabile, quel pragmatismo per cui la donna deve “tutto accettare” come se ancora separarsi dal marito equivalesse a perdere, quell’associazione secondo cui moglie=noia, amante=gioia, e quel conseguente obbligo per la prima di rendersi “interessante”, provocante, intraprendente (sempre e solo sessualmente, chè altrimenti l’”uomo” si sente minacciato) per poter sperare e ambire a neutralizzare la seconda. Insomma, quell’infinito insieme di luoghi comuni sessisti e nostalgici del tempo-che-fu che a tratti quasi innervosiscono tanto sono frequenti e ripetuti.
L’aspetto che avrebbe potuto essere approfondito è quell’essere inerme del marito, la sua assenza di decisione, il suo infantilismo – suggerito dal titolo, dal fatto che siano le due donne a decidere di spartirselo, senza consultarlo, ed evocato dalla durata della relazione adultera pre-scoperta della moglie (9 mesi) e dall’epilogo, che palesa l’evocazione e infantilizza ancora di più, se possibile, il già essere estremamente puerile di Jean (frase criptica che deve restare tale per non rivelare completamente il finale). L’uomo “oggetto” del contendere diventa effettivamente solo un oggetto del gioco di potere tra le due donne, ma non è certo questo un risvolto sufficiente a cancellare il retrogusto tradizionalista della trama.
A completare il quadro già piuttosto nutrito di stereotipi, l’amico omosessuale di Jean, anche lui, tanto per aggiungersi alla lista, innamorato dell’improbabile seduttore-suo-malgrado. Certo, l’aver scelto Didier Bourdon come novello casanova ha sicuramente finalità ironiche, o almeno questo è l’effetto provocato, non si sa quanto volontariamente. Ma non basta a evitare di chiedersi che cosa mai possa avere quest’uomo “piccolo piccolo”, questo opaco professore universitario con panciotta e fare annoiato per affascinare donne e uomini indistintamente e a ripetizione.
Bilancio finale di Un marito a metà
Qualche risata a sprazzo riesce a tirarla fuori – e forse più negli uomini che nelle donne, a parte nel finale. L’umorismo è banale, da sketch marito-moglie-amante d’annata (passata da tempo, fosse un vino sarebbe diventato aceto). Alla fine scontenta tutti: quelli che si erano ringalluzziti – perché il destino del marito non sarà celestiale; quelle che si erano risentite – perché il destino di tutte le donne, in un modo o nell’altro, è sempre è solo, a giudicare dal film, diventare madre; quei, pochi, che avevano fino in fondo sperato in un twist geniale che ribaltasse la piega sempre più in discesa presa dal copione – che resteranno delusi, la discesa diventa velocemente precipizio senza ritorno.
Chissà, forse se la “custodia” alternata fosse stata della moglie, e fossero stati due uomini a dannarsi per attirarsene i favori, lo script ne avrebbe acquisito in originalità e sarebbe stato maggiormente allineato coi tempi.
A volte la bravura dell’attore viene nascosta da una trama “noiosa”