Esce in Italia il 7 giugno L’Atelier, di Laurent Cantet, regista premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes del 2008 per Entre les murs e da allora etichettato come “cineasta socialmente impegnato”. Il film è co-sceneggiato dallo stesso regista e da Robin Campillo, autore del lungometraggio Les Revenants (2004), da cui è stata tratta la serie televisiva omonima.
L’attrice protagonista è la brava Marina Foïs, affiancata da un gruppo di ragazzi non-professionisti, originari del luogo in cui la pellicola è stata girata, La Ciotat (31 km ad est di Marseille).
L’Atelier
Olivia (Marina Foïs), scrittrice parigina piuttosto nota, sbarca in questa piccola cittadina del sud della Francia per tenere un “atelier” di scrittura creativa con un gruppo di ragazzi selezionati dall’ufficio di collocamento locale. L’obiettivo del workshop è di elaborare insieme un romanzo poliziesco, che poi sarà pubblicato e che deve necessariamente avere un legame con la città che li ospita e il suo passato.
I ragazzi, 7 in totale, decidono di focalizzare la loro attenzione sul cantiere navale di La Ciotat, chiuso ormai da 25 anni. Solo uno tra loro è in costante disaccordo, Antoine (interpretato dall’esordiente Matthieu Lucci). Le sue ragioni, per certi versi anche brillanti, spesso scadono in semplici provocazioni dai toni a volte pericolosamente razzisti. La sua personalità controversa e contradditoria affascina sia umanamente sia professionalmente Olivia, sempre alla ricerca di “materiale reale” per nutrire le sue opere, ma anche genuinamente messa in discussione dalle uscite politicamente scorrette del ragazzo.
Inizia tra loro un confronto-scontro, che diventa per il regista l’occasione di inscenare diversi altri confronti-scontri possibili: generazionali, sociali, politici, di estrazione e di provenienza.
Un cinema che interroga senza rispondere
Durante L’Atelier le discussioni tra i ragazzi e tra i ragazzi e la scrittrice fanno emergere una serie di temi caldi estremamente attuali, senza che questi siano trattati come effettivi argomenti del discorso. Escono fuori naturalmente, dalle battute e dalle frequenti frecciate che si scambiano i setti giovani presenti – che, peraltro, improvvisavano frequentemente sulla base di una traccia data loro da regista e sceneggiatore.
Ognuno di loro rappresenta in qualche modo una realtà (o uno stereotipo) sociale ben distinto: dalla ragazza di origini arabe col nonno comunista e operaio del cantiere al ragazzo afroamericano, a quello mussulmano, a quello che pensa che scrivere sia una cavolata e che è venuto solo per guadagnare punti di formazione, a quello taciturno e introverso con attitudini da simpatizzante di estrema destra. Anche Olivia è in qualche modo lo stereotipo della parigina, intellettuale, impegnata, evidentemente sinistroide.
Ma al di là del loro rappresentare categorie, a prima vista anche piuttosto rigide e schematiche, la natura improvvisata dei loro dialoghi riesce a renderli talmente realistici da sfiorare quasi il documentario. Anche la tecnica di regia impiegata, che sposta la camera da uno all’altro a seconda di chi parla, evidenzia il desiderio di sottolineare l’aspetto di “scorcio di vita”, testimonianza diretta e non fittizia, istantanea del reale.
Come in una conversazione comune, ma con la presenza di un istigatore di professione (Antoine, provocatore e polemico come molti adolescenti sanno essere), si passa dal parlare del Bataclan al perché la ragazza non porta il velo, dal prendere lievemente in giro l’accento “pretenzioso” della scrittrice di Parigi – “che non si capisce una parola quando parla” – al ricordare gli sforzi per integrarsi dei nonni immigrati, dall’ISIS alla possibile ideazione di una trama plausibile per il romanzo poliziesco cui stanno lavorando.
Le affermazioni spesso disturbanti di Antoine incuriosiscono non solo Olivia, ma anche – presumibilmente – il regista e lo spettatore. La sua fascinazione apparente per la violenza, il suo sembrare compiaciuto nell’immaginare scenari di morte, il suo spiegare le scelte di un ipotetico assassino non cercando un movente, ma adducendo come unica e valida ragione la noia, interrogano e scuotono nel profondo le certezze e quella sorta di superiore condiscendenza che hanno gli adulti, in generale, e Olivia/Marina Foïs, in questo caso particolare.
L’aspetto che colpisce, in L’Atelier, è che non si ha mai l’impressione che ci sia un discorso sotteso alle varie prese di posizione – né da parte di Antoine né da parte del regista che le mette in scena. Nessuno ha una tesi da dimostrare, nessuno conosce a priori le risposte. Tutti insieme ci si pone delle domande, si esplora, si indaga. Antoine lo fa tuffandocisi, come quando si immerge nel mare saltando dallo scoglio dove si rifugia, solitario, a meditare. È proprio il suo immergersi senza paura, senza i freni o i limiti del buon senso, del pudore, del “politically correct” che spiazza ed insieme lascia senza parole, spaventa e nel contempo attira, sia la scrittrice sia, in parte, lo spettatore.
Il richiamo e il rimando degli schermi
Puntuale contraltare della ricerca di Antoine e delle parole che si scambiano durante L’Atelier sono le immagini che Laurent Cantet inserisce durante la narrazione. Immagini prese dai videogames, immagini di documentari datati sulla storia del cantiere, immagini di discorsi su youtube di politici di estrema destra, immagini sui social di (inquietanti) bravate tra ragazzi, immagini delle interviste fatte dalla scrittrice.
Il film è una specie di dialogo tra un fiume di immagini sconnesse e slegate una con l’altra e il fiume di parole che emergono tra i giovani partecipanti del workshop. Un fiume altrettanto sconnesso di discorsi, di temi altrettanto slegati gli uni con gli altri. Un dialogo tra mondi che non possono parlarsi e che, se anche lo facessero, non si capirebbero. Possono forse solo tentare di darsi un senso, come sembra voler fare Olivia con Antoine. Senza alla fine riuscirci davvero. Senza alla fine andare al di là della raccolta di informazioni – varie ed eventuali, che servono ed inutili, che portano a determinate conclusioni e al loro opposto. In pratica, vane. Che non permettono la comprensione, solo – forse – l’accettazione dell’incapacità a comprendere.
Cosa aveva davvero in mente Antoine? Dove portavano le sue provocazioni? Sarebbe andato fino in fondo – o prima o poi ci andrà? Non è dato di sapere, perché nemmeno lui lo sa. Perché ciò che più di ogni altra cosa esprime il suo personaggio – e il vero motivo per cui risulta così inquietante – è che non solo non esiste un senso, ma che anche esistesse a lui non interesserebbe trovarlo. Esprime la rinuncia a pensare che si possa comprendere. L’affermazione che in fondo vale tutto, e che tutto vale perché in realtà niente ha davvero un valore. Che alla fine può anche valere uccidere per noia, perché la noia cancella la differenza tra ciò che ha un senso o ciò che non lo ha, tra il giusto e lo sbagliato, e allora tutto diventa uguale e irrilevante.
L’abisso del nichilismo portato avanti senza disperazione, come se fosse una condizione di vita più o meno naturale, da un giovane che, in quanto tale, dovrebbe essere l’esempio dell’antitesi più eclatante di questo pensiero. Questo è lo spettro che riflette Antoine agli occhi di Olivia, che si è affacciata a cercare di guardare cosa avesse dentro. Rimanendo inorridita dal vedere che dentro era vuoto.
Bilancio finale di L’Atelier
Film che meriterebbe un dibattito alla sua fine, perché mette sul tavolo una serie di temi su cui sarebbe opportuno confrontarsi. Gli scambi verbali tra i ragazzi scorrono con una naturalezza che ne stempera la reale portata, ma la figura di Antoine – magistralmente resa dall’esordiente Lucci – ha il compito sia nella finzione scenica sia per gli spettatori di riportare il discorso su quelle scabrose verità cui pertiene. Di squarciare il velo per cui tutto è banalizzabile e prendibile come semplice provocazione, e instillare il dubbio che la realtà che vi è dietro sia più profonda. E per questo ancor più spaventosa. Interessante e lievemente destabilizzante.