Il cinema spietato di Bong Joon-ho

“Ci sono solo tre motivazioni per un omicidio: denaro, passione o vendetta”. Se dicessi che questa secondo me è la frase chiave di “Mother”, farei subito pensare che si tratti di un film giallo.

Ma in realtà non lo è. La storia di “Mother” ha sì a che fare con un omicidio e con un indiziato, però – come del resto dice già il titolo – soprattutto con una donna, che è appunto la madre del presunto assassino.

“Mother” è il nuovo film del regista coreano Bong Joon-ho, presentato pochi giorni fa in anteprima a Firenze.

L’azione si svolge appunto in Corea. Non però nella grande Seoul, ma in un villaggio povero e retrogrado dove vive Doo-Jon, un ragazzo apparentemente innocuo e certo poco brillante (anzi, quasi ritardato): il quale, tornando a casa dopo aver bevuto, una notte, si imbatte in una studentessa e comincia a seguirla come in un penoso tentativo di corteggiamento. La mattina dopo la ragazza viene rinvenuta cadavere, e Doo-Jon subito arrestato dalla polizia che lo induce a confessare.

Il caso è ufficialmente chiuso, dunque, ma non per la madre di Doo-Jon: che continua ad insistere con la polizia, indebitarsi per pagare un buon avvocato, perfino indagare in proprio  con il rischio di cadere nel ridicolo. E’ un personaggio di enorme grandezza tragica, animata da una inestinguibile energia che la porta a cercare qualsiasi appiglio per dimostrare l’innocenza di Doo-Jon. E da spettatori, si resta per tutta la prima parte della pellicola con un dubbio costante: la sua ostinazione è dettata solo da un cieco amore materno, oppure è l’unica persona in grado di scoprire la verità?

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L’umanità spietata

“Mother” è un film che lascia con gli occhi sbarrati per quanto è duro da vedere e da accettare, non per la vicenda raccontata ma per la caratterizzazione dei personaggi: a parte la madre, tutti gli individui che costellano la vicenda sembrano infatti assolutamente incapaci di provare pietà. E’ questo a farceli sembrare così disturbanti, quasi fossero automi che si muovono solo in base a riflessi condizionati, incapaci di provare un sentimento autentico. Ma la cosa più difficile da digerire è che nemmeno Doo-Jon mostri alcuna pietà verso se stesso: la sua anima è indifferente a tutti, lui compreso, e l’eccezione materna risaltà ancora di più in quanto isolata: pur con tutte le sue debolezze, ci pare l’unico essere umano rimasto in un mondo alieno. O forse, non lo è nemmeno lei.

Alla fine si scende così in basso nella scala morale, che viene quasi da pensare che l’omicidio o quel poco di violenza effettivamente mostrata siano gli eventi meno malvagi descritti nel film. Quelli sono la conseguenza, l’appendice di un Male che sta ovunque. La tensione, l’inquietudine che anima ogni inquadratura non sembra tanto legata alla possibile risoluzione del caso: quanto alla ricerca, altrettanto difficile, di un ultimo barlume di umanità nei personaggi.

Indimenticabile la scena iniziale, con la protagonista che accenna passi di danza da sola in un prato, con il suo viso inflessibile ma dolce, enigmaticamente sospesa tra riso e pianto.

Per approfondire, leggi la scheda di Mother su Asianmoviepulse.

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