Frankenstein: Due secoli di verità

Arriva anche nella sale italiane il prossimo 17 Marzo una nuova versione del mito del moderno Prometeo nato nelle pagine di Mary Shelley quasi due secoli or sono. Questa volta, però, nessuna major hollywoodiana ma un film indie con una prospettiva atipica ed una regia insolita: è al cinema Frankenstein.

Frankenstein

Frankenstein

Frankenstein

In un laboratorio nascosto, il dottor Frankenstein (Danny Huston; Big Eyes, X-Men: Le origini – Wolverine) e sua moglie (Carrie Ann-Moss; Memento, Matrix Trilogy) riescono nell’intento di dare la vita ad un essere vivente costruito tramite speciali apparecchiature (Xavier Samuels; Fury, Two Mothers). L’essere prende però coscienza e fugge per scoprire il mondo che lo circonda.

Trailer del film “Frankenstein”:

Gothic Inside

Direttamente dall’Inghilterra arriva questo film indie che, in silenzio, si è fatto strada negli ultimi tempi tra curiosi e appassionati di uno dei mostri (solitamente Universal) più famosi e prolifici di sempre. Tanto è stato filmato sulla storia di Frankenstein, sulla moglie, sui figli, sui successori, tra sequel, prequel, remake, reboot e quant’altro. Era il 1816 quando la scrittrice Mary Shelley, insieme al marito e Lord Byron, ebbe la singolare intuizione di un professore che, tentando di imitare Dio, fosse riuscito a riportare la vita in un corpo inanimato e di come questo corpo, presa coscienza, volesse inizialmente provare a vivere per poi accorgersi di appartenere alla morte.

Il romanzo sarebbe poi uscito nel 1818 e da li tutta una serie di riflessioni e considerazioni sociologiche, etiche e filosofiche che hanno attraversato il tempo e lo spazio passando dall’impianto espressionistico e visivamente gotico del film di James Whale del 1931 a quello più barocco e intimista di Terence Fisher del 1957 fino a remake a limiti della decenza come il recente I,Frankenstein con Aaron Eckart nei panni del mostro.

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E in tutte queste decine e decine di pellicole degli ultimi ottanta anni, ecco che quella dell’inglese Bernard Rose risulta essere la più visionaria e sperimentale, seconda chiaramente solo ai film sopracitati, poiché riesce a raccontare una prospettiva inedita a livello stilistico, una fotografia sporca con una drammaturgia contemporanea ed un sapore indie in ogni frame che non si spaventa a mostrare l’anima profondamente gothic che il personaggio e cui la storia originale non può prescindere.

Sogno e Realtà

Quello che si racconta, dopotutto, è sempre la stessa storia. Ed è anzi apprezzabile il susseguirsi di situazioni similari al testo originale e al film del 1931 cui questo mostro va ad interfacciarsi: la fuga nel mondo, la bambina nel lago, l’amico non vedente, la voglia di trovar contrappunto nell’altro sesso, il legame con un padre (o meglio qui una madre). Tante saranno poi le differenze, come quella fondamentale con il fuoco, elemento da sempre centrale nell’ intessitura della storia.

Quel che si apprezza di questo prodotto messo insieme con pochi spicci è proprio la voglia di raccontare una storia conosciuta da chiunque provando a trovare (finalmente, aggiungerei) una chiave nuova nella regia e nella messa in scena, allontanandosi dai barocchismi del film di Kenneth Branagh (1994) o da un visionario pittoresco. Anzi la società, la massa, è il vero mostro, sempre più famelico, sempre più dissociato dal vivere comune, e questa bruttura la si ritrova per le strade nel filmico quanto nella costruzione dell’inquadratura e nelle scelte di fotografia nel pro-filmico.

FRANKENSTEIN-First-Look

Ciò detto, non ci troviamo davanti ad un grande film né ad un film riuscitissimo poiché, al di là dell’ottimo lavoro di make-up ed un primo atto claustrofobico e volutamente lento, la storia poi si riassesta tra le ovvietà e il ritmo tende a scendere proprio per (la bella intuizione che porta però il regista a farsi uno sgambetto da solo) della prospettiva del racconto che segue unicamente il mostro come una pseudo-soggettiva. Fuori contesto forse i momenti onirici, frettoloso e troppo esplicitamente grottesco il finale in cui la regia perde il suo smalto e si concede i cliché che il genere e la storia da sempre ci hanno regalato.

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