127 Hours: ecco la recensione del film di Danny Boyle

Tutto si può dire di Danny Boyle, tranne che gli piaccia fare sempre lo stesso film. Nella sua carriera è stato capace di girare un capolavoro assoluto come Trainspotting, un film da otto premi Oscar come The Millionaire, l’ottimo Piccoli omicidi tra amici a fianco di pellicole così così ed alcune decisamente orride (The Beach).

E’ interessante notare che comunque sono tutte diversissime l’una dall’altra, e lo stesso vale anche per questo nuovo “127 Hours”: che appena uscito in Inghilterra, viene già invocato da più parti come papabile per i prossimi premi Oscar. Non sarà troppo presto per parlarne? Infatti sì, e non ne parliamo.

La trama

Di sicuro c’è che l’idea alla base del film è ambiziosa. Si tratta di una storia vera, che lo stesso regista ha adattato dall’autobiografia di Aron Ralston: un alpinista, o per meglio dire un “arrampicatore di canyon” (direi anche un “rocciatore”, ma non so se esiste) che in un bel giorno di aprile del 2003 se ne va a passare qualche giorno appunto tra i suoi canyon preferiti, nello Utah (uno stato occidentale degli USA). Lo vediamo durante i titoli di testa che scorrazza allegramente in macchina per arrivare sul luogo dell’avventura, ascoltando musica Electro Rock a tutto volume e girando riprese al volo con la telecamerina (un’azione che lo rivedremo fare praticamente in ogni momento  del film). E mentre è in viaggio urla “Solo io, la musica e la notte” come una sorta di slogan personale.

Il ragazzo è allegro e sportivo, e all’inizio della sua escursione ha trovato anche il tempo di scortare due ragazze che si sono perse. Ma proprio mentre nulla sembra poter andare storto e si arrampica da solo sulle rocce come se fossero le scale di casa sua, tutto va storto: scivola di qualche metro e rimane inesorabilmente incastrato con la mano destra sotto un’enorme pietra.

Il commento

La gran parte di “127 Hours”, appunto, racconta il dramma dell’arrampicatore in trappola, dei suoi tentativi di liberarsi, e dell’eventualità di dover prendere una decisione terribile. Danny Boyle dice di aver girato “un film d’azione senza azione”, ed è una buona sintesi: durante le 127 ore della prigionia infatti non succede praticamente nulla, vediamo solo le espressioni del protagonista James Franco (a sua volta candidabilissimo agli Oscar), il suo lento degrado nella disperazione e nel decadimento fisico, ed ancora i flashback di memorie che gli corrono alla mente.

Dare un giudizio è difficile visto che questo film cerca di filmare l’infilmabile, cioè direttamente l’interiorità di un ragazzo – fino ad allora del tutto incosciente dei rischi – catapultato in una lenta agonia. E per quanto mi riguarda, l’effetto è stato di immedesimazione totale: le immagini sono crude, e quelle poche cose che succedono sono talmente drammatiche da sentirsi quasi intrappolati nella pelle del protagonista. Di sicuro, come accade solitamente con i film di altro genere, non lo consiglierei ai deboli di stomaco.

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