Se il titolo 7 uomini a mollo, infelice “traduzione” di Le grand bain, potrebbe farvi desistere, non lasciatevi fuorviare: il film diretto da Gilles Lellouche che esce il 20 dicembre nelle sale italiane è una delle commedie francesi più divertenti e interessanti dell’anno. Anche grazie ad un cast corale che vede schierati attori di prim’ordine del panorama cinematografico d’oltralpe – da Guillaume Canet (Mio figlio) a Benoît Poelvoorde (Dio esiste e vive a Bruxelles), Mathieu Amalric (I fantasmi di Ismaěl), Marina Fois (L’atelier), per citarne solo alcuni.
7 uomini a mollo
Un gruppo di uomini diversamente depressi si ritrova, per caso o per ineluttabile affinità, a far parte di un’improbabile squadra di nuoto sincronizzato maschile nella piscina del quartiere.
Tutti e sette sono, per un motivo o per l’altro, completamente alla deriva: Bertrand (Mathieu Amalric), disoccupato da più di un anno, passa le giornate a giocare col telefonino sdraiato sul divano; Marcus (Benoît Poelvoorde), sta per sfiorare l’ennesimo fallimento e chiudere il suo negozio di piscine; Laurent (Guillaume Canet), irascibile e collerico, rischia di essere lasciato da moglie e figlio; Simon (Jean-Hugues Anglade), musicista capellone ormai invecchiato, ancora sogna di sfondare e intanto si esibisce in case di riposo – quando non lavora alla mensa scolastica del liceo della figlia.
E ancora: Thierry (Philippe Katerine), stralunato addetto alla manutenzione della piscina, incapace di avere relazioni con le donne; Avanish (Thamilchelvan Balasingham), che parla solo nella sua lingua, che nessuno conosce ma tutti – inspiegabilmente – comprendono; Basile (Alban Ivanov), che teme di invecchiare e si sente a disagio nel suo corpo.
Esempi di varia umanità che farebbero gola a Costanzo, i sette sono tenuti insieme dapprima da un’allenatrice, Delphine (Virginia Efira), che fuma a bordo piscina e legge loro passaggi di letteratura invece di dare consigli su come nuotare; in seguito, quando quest’ultima crolla, dall’energetica e ruvida Amanda (Leila Bekhti), praticamente la versione al femminile del tirannico sergente di Ufficiale e Gentiluomo. Le due, diametralmente all’opposto, erano state un tempo un team affiatato e vincente di nuotatrici della categoria che ora insegnano, il nuoto sincronizzato. Ma l’incidente che aveva lasciato in sedia a rotelle Amanda e distrutto psicologicamente Delphine le aveva fatte separare, arrestando di fatto la loro brillante carriera.
Il sogno impossibile di partecipare ai campionati del mondo in Norvegia in questa disciplina così insolita nell’immaginario maschile farà ritrovare forza a tutto lo scombinato gruppo, dando loro un senso e uno scopo.
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Il Full Monty del nuoto sincronizzato maschile
L’analogia con il celebre film inglese sorge spontanea, ed è stata ampiamente rilevata dalla critica.
Anche qui abbiamo un gruppo di anti-eroi, di perdenti, di uomini ai margini della società che rappresentano l’opposto dell’ideale del “maschio/macho” alfa. Non particolarmente giovani, decisamente non muscolosi, sicuramente non di successo. Quelli apparentemente meno sfigati irrimediabilmente loser (Canet e John/Félix Moati, infermiere di una casa di riposo che si unisce alla squadra in un secondo tempo), sono comunque sull’orlo di una crisi di nervi, o costantemente aggressivi e arrabbiati o tranquilli solo perché sotto uso di sostanze. Quindi, in pratica, non messi meglio.
Anche qui abbiamo la scelta di una disciplina in cui normalmente la fanno da padrone grazia e prestanza, quando non femminile, quantomeno di uomini dal fisico aitante, atletico, curato. Se per Full Monty era lo spogliarello, in questo caso è il nuoto sincronizzato, il regno di Ester Williams, uno dei pochi sport per cui l’accesso agli uomini – a livello di campionato mondiale – è stato aperto da soli 3 anni (nel 2015). In pratica, quanto di meno “virile” – nel senso stereotipato del termine – possa venire in mente.
E anche qui, come in Full Monty, abbiamo alla fine il riscatto, la riscossa, che oscilla tra i toni del tenero e dell’epico. La svolta che porta i sette uomini allo sbando a ritrovare un motivo per darsi da fare, impegnarsi, migliorarsi. Smetterla di lasciarsi andare. Il sogno che ridà loro lo scopo, il senso perduto.
A fianco di questi uomini con le fragilità sovraesposte, come i chili di troppo, senza filtro o pudore, ci sono una girandola di donne notevoli.
A cominciare dalle due allenatrici, fin da subito, nelle loro evidenti differenze, più “maschili” dei “sette” che devono allenare. La bionda Delphine (Virginia Efira), con quel suo fare da finta dura, che ha superato indenne traumi e che è riuscita a risalire la china – e che crolla miseramente rivelando il castello di carte su cui si poggiava la sua presunta stabilità. E la bruna Amanda (Leila Bekhti), che dura lo è dovuta diventare sul serio, a causa della sua condizione di paraplegica dopo l’incidente, che bacchetta la banda di smidollati che si trova ad allenare quando la sua ex-socia abbandona, ma che sotto sotto ha bisogno anche lei di rallentare, abbassare le difese, togliere l’armatura e ritornare a sognare. Una coppia di estremi che si compensano insieme ritrovando un nuovo, inaspettato equilibrio, come, un tempo, da giovani, insieme riuscivano a trovare quella magia che le portava a vincere tutte le competizioni.
Non è da meno la moglie di Bertrand, Claire (Marina Fois), che lo sostiene con pazienza biblica nella sua infinita e interminabile depressione, nelle sue scelte atipiche, contro e a dispetto delle critiche di chiunque. In particolare, della sorella, sposata al classico maschio “alfa” (o, almeno, alla sua sparuta ombra, ciò che il realismo spietato del film ci concede di avere), che le rinfaccia che “la gente mormora” sulla decisione del marito di darsi al balletto acquatico, uno sport da donzelle. O la figlia di Simon, Lola (Noée Abita), che, pur vergognandosi del padre, vecchio rocker fallito, riesce ad andare al di là della sua vergogna – cosa non irrilevante per un’adolescente – e a vedere il buono che ancora c’è dentro di lui. Personaggi, anche loro, più forti, decisi, capaci di andare al di là delle apparenze e di ciò che pensano gli altri. Più eroici dei fragili protagonisti maschili di 7 uomini a mollo.
Al di là e oltre tutto questo, al di là della simbologia della rinascita nell’acqua della piscina, al di là dell’attacco col voice-over stile documentario anni ’50, che filosofeggia sull’impossibilità, nella vita, di far entrare un cerchio in un quadrato e il contrario, al di là del realismo spietato ed insieme dell’irrealistico ma inevitabile riscatto finale, nel film di Gilles Lellouche ci sono tante, tante risate. Tanti momenti di puro e semplice divertimento, come ad esempio la parodia del caper movie quando i sette organizzano il “colpo grosso” tentando di rubare costumi e accappatoi per la gara al centro commerciale, con le immagini al rallenty, la musica adeguata a pieno volume e i completi giacca-occhiali neri. O le conversazioni nello spogliatoio. O l’incontro-scontro con la nuova, inflessibile trainer.
Bilancio finale di 7 uomini a mollo
Tenero, emozionante, divertente. Dipinge uno spaccato di realtà – l’uomo dalla trentina alla cinquantina in crisi, ma non solo – con toni tra il divertito e il tristemente consapevole, facendo riflettere senza appesantire. Ci regala – in linea col Natale – un ritratto di un gruppo sgangherato di individui come non se ne vedeva da tempo, persi e dispersi dal caotico e frenetico girare del mondo, che si ritrovano a fronte di un progetto tendenzialmente assurdo. Che proprio nella sua assurdità, incoerenza e diversità ha la forza per affermarsi e riaffermarli, anche ai loro stessi occhi.
Bel film, bel messaggio, buon modo di passare un pomeriggio delle ormai prossime vacanze di Natale. Andandolo a guardare.