Presentato al Torino Film Festival, dal 30 Novembre arriva in 350 copie il terzo capitolo della saga che chiude l’esordio al cinema del regista Sydney Sibilia, che racconta la propria generazione a metà tra commedia all’italiana e action all’americana: Smetto Quando Voglio – Ad Honorem.
TRAMA “SMETTO QUANDO VOGLIO – AD HONOREM”
La banda è dietro le sbarre mentre il misterioso Walter Mercurio (Luigi Lo Cascio; Il capitale umano, Il nome del figlio) si prepara ad usare il gas nervino prodotto dai guadagni della sostanza Sopox per un losco fine. Pietro Zinni (Edoardo Leo; Perfetti Sconosciuti, Che vuoi che sia), rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, decide allora di allearsi con il vecchio nemico Er Murena (Neri Marcoré; Latin Lover, Leoni) per far evadere la banda e risolvere la situazione.
TRAILER “SMETTO QUANDO VOGLIO – AD HONOREM”
LA GRANDE PROVA
Iniziò come un gioco, si potrebbe dire. Era il 2014 e assistevamo ad una commedia all’italiana che imponeva ad una struttura narrativa classica e coerente l’incursione del pop americano di genere, fulmineo sguardo di una generazione di trentenni cresciuti con il cinema commerciale anni ’80/’90 e con una produzione italiana che nello stesso periodo si chiudeva sempre più in un ermetismo di pochi in cui non sembrava esserci spazio per sperimentare e contaminare. Il revisionismo era dunque inevitabile.
Con questo terzo capitolo si chiude la trilogia di Smetto Quando Voglio che, insieme al Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (2016) ha dimostrato, in termini di critica e incassi, che c’è spazio non tanto (o non solo) per idee altre ma anche per un coraggio produttivo ed una coerenza narrativa ad inserire e rendere verosimile il puro genere (di cui un tempo eravamo padroni) nel tessuto sociale, storico, politico italiano.
IL CERCHIO SI CHIUDE
Come ogni grande prova che apre una strada, la saga di Smetto Quando Voglio non è certo vicina alla perfezione e lo script, via via che si prosegue con il racconto, diventa forse la cosa meno verosimile, sottomesso al citazionismo e al far coincidere le svolte della trama e le azioni dei personaggi.
Là dove invece il progetto vince è nel gruppo di personaggi perfettamente funzionante e nella costruzione dei singoli caratteri, nei dialoghi e nelle interpretazioni del cast, dai latinisti di Aprea e Lavia al matematico di De Rienzo, dal cattivo ma non troppo di Marcoré all’antropologo di Sermonti, dall’archeologo puntiglioso di Calabresi, dalla poliziotta della Scarano allo scienziato di Fresi e fino al ricercatore universitario Edoardo Leo, grande maschera del nostro tempo, del precariato e dell’irraggiungibilità della felicità, maschera ricca di sfumature che rendono il personaggio un buono dalla profonda e sfaccettata umanità.
Ma il progetto vince anche nella costruzione dei tre capitoli, capitoli che il regista scinde in termini di clima e ritmo tra di loro ma che rende coerenti nell’insieme, sottomettendo però fin troppo la trama e patendo, specie in questo terzo capitolo, un climax che viene fin troppo spesso sfiorato ma (quasi) mai raggiunto, apice che rimane così insuperato dalla scena dell’assalto al treno del secondo episodio. Questa terza parte appare così quasi come una coda lunga dell’episodio precedente, ed è un vero peccato per quanto si comprenda lo sforzo produttivo (il 2° e 3° episodio sono stati girati insieme – backtoback – lungo un anno e con un budget totale di 10 milioni di euro) e narrativo nell’inserire nel nostro cinema un certo tipo di produzioni solitamente di stampo “hollywoodiano” a cui non è facile (ri)abituare né i produttori che il pubblico. Eppure una risposta c’è stata e di certo progetti del genere, ad oggi, vincono nella bontà del loro intento più che nella specifica resa complessiva.
Dopotutto il primo Smetto Quando Voglio parla ad una generazione, quella dei trenta-quarantenni, di quelli che ci hanno provato ma hanno gettato la spugna e di quelli che tentano di reagire nei modi più disparati. Allo stesso modo, in questo terzo capitolo, i nostri protagonisti guardano alla generazione più giovane, quella dei ventenni, ed in loro scorgono un barlume di speranza, di lucidità o di utopica visione (positiva?) che li rigenera e gli dà realmente modo di sperare, sperare che in qualche modo una soluzione si troverà.
Allo stesso modo, Sibilia e Rovere danno modo di sperare al cinema di domani che una strada è stata aperta e che adesso sta solo alle storie trovare i giusti strumenti per dar loro l’occasione giusta per lasciarsi raccontare.