Una coppia di giovani americani riprende con la propria telecamera una serie di attività paranormali che si manifestano nella loro casa è più precisamente nella loro camera da letto; un aspirante regista indipendente cerca di documentare l’orrore della trasformazione in zombie dell’intera umanità mentre fugge con gli amici per trovare un possibile riparo; una giornalista rimane intrappolata in un condominio con il suo cineoperatore e registra le mostruosità degli inquilini infettati da un terribile virus.
“Paranormal activity” (Oren Peli, USA, 2007), “Diary of the dead” (George A. Romero, USA, 2007) e “Rec” (Jaume Balagueró, Paco Plaza, Spagna, 2007) sono solo gli ultimi esempi di un cinema contemporaneo realizzato attraverso l’uso di soggettive e piani di lettura rinnovati trasformando il binomio “tu vedi ciò che io vedo” in “tu vedi quello che la telecamera vede”.
Con “The Blair witch project” di Daniel Myric e Eduardo Sanchez del 1999, l’impressione di realtà dettata dalla telecamera/storia aveva costretto il telespettatore ad identificarsi non solo in ciò che la camera vedeva (i protagonisti, il bosco) ma soprattutto in ciò che non veniva mai esibito (la strega, gli orrori notturni, le sevizie). L’occhio della macchina cercava l’inquietudine proprio nel non visto, nel non visibile (luogo naturale delle paure) andando ad accrescere la tensione narrativa fino all’epilogo finale, in un gioco di vero/falso costruito ad hoc dalla produzione del film con il supporto della rete.
In “Cloverfield” di Matt Reeves del 2008 il malcapitato protagonista registrava i momenti precedenti il climax (una festa di capodanno con storie di coppie e gelosie) per poi mostrarci, sempre attraverso lo sguardo/lente/macchina, l’evento stesso (un’enorme mostro alieno all’attacco di New York). Al non visto si disponeva la visione dell’orrore, della manifestazione soprannaturale, della paura, stessi elementi che si ritrovano in “Paranormal activity” dove assistiamo alla presenza/assenza di un demone che nell’epilogo prende forma attraverso il corpo della protagonista.
Con “Rec” e “Diary of the dead” entrano in gioco i media, la tematica dell’informazione e della controinformazione.
“Rec” ci mostra una troupe televisiva coinvolta, all’interno di un condominio, in un’emergenza virale che tramuta gli inquilini in zombie. Mentre all’esterno alla cittadinanza non viene rivelata la verità sul virus da parte delle autorità, la troupe riprende tutti gli accadimenti all’interno e i giornalisti, in primis la ancor woman protagonista del film, sentono già la vittoria nel prime-time della programmazione della loro emittente. Le informazioni sulla vicenda, così come l’urgenza della cronaca, sono affidate, ancora una volta, all’occhio della cinepresa, occhio crudele e reale che va oltre la superficiale notizia.
Discorso diverso per “Diary of the dead”, il film quinto sugli zombie di Romero.
Il maestro ancora una volta fa un passo avanti nella sua cinematografia e pur utilizzando lo stesso impianto filmico (la telecamera che registra la vita reale) mette sulla bilancia concetti quanto mai odierni come il web che rimane organo di informazione libera (nel film è l’unica piattaforma ancora in piedi dopo la catastrofe), la sconfitta dei tradizionali mezzi come tv e giornali, la velocità di condivisione dei contenuti su internet (il protagonista che uploda il suo video e diviene in tempo reale notizia). Ma Romero pone anche dei dubbi sull’utilizzo dei nuovi mezzi denunciando anche chi li utilizza e la propria ostentazione; non a caso uno dei protagonisti, il regista che filma morbosamente in diretta, prima fa ripetere a mo di ciak un’entrata in una casa agli amici a costo di sacrificarli ai morti viventi, poi gode nel vedere il proprio video cliccato da migliaia di persone su internet.
Di grande forza risultano poi le scene viste attraverso gli occhi delle telecamere di sorveglianza (se ne potrebbe trarre un film, magari qualcuno ci pensa già?) all’interno della casa bunker dove si rifugiano i protagonisti, una forza visiva a tratti anche più efficace delle immagini mediate dalla telecamera e dell’occhio umano del protagonista (altra grande intuizione romeriana).
Quanto mai oggi il cinema di genere, e l’horror su tutti, si confronta e si pone delle domande sulle nuove tecnologie, sugli strumenti che dovrebbero informarci, sulle censure (sarà un caso che il film di Romero sia difficile da vedere se non su internet?); quanto mai oggi la rete entra prepotentemente negli schermi cinematografici in una sorta di scambio/duello tra mezzi che giocano a contendersi il dominio della partecipazione.
E la televisione? Povera, la troviamo riversa a terra, piangente e asfissiata da se stessa e dai suoi possessori, incapace di generare contenuti e di rigenerarsi.
Eccolo qui il film fatto solo con telecamere di sorveglianza (o quasi).
Si chiama Record 12 ed è stato presentato la settimana scorsa al Torino Film Festival
http://www.soloparolesparse.com/2009/11/record-12-fantasmi-al-tff27/
grazie, magari riusciamo a trovarlo nel web
Luigi
@soloparolesparse: ti ringrazio per il link di approfondimento, i lettori di cinemio lo leggeranno sicuramente ;).
A presto e buon cinema ;).