Dopo essermi occupata, nella prima parte del post, del film Partner di Bernardo Bertolucci, eccomi pronta a proseguire (e conludere) questo ciclo di proiezioni dall’ispirazione decisamente dostoevskijana.
Vorrei oggi curarmi di un altro grande regista a cui, non a caso, la Fondazione Cineteca Italiana ha dedicato ben due spazi all’interno di questa raffinata rassegna.
Sto parlando di un ormai (quasi) dimenticato Robert Bresson, francese dall’infanzia sconosciuta, che “sino a diciassettenne anni non aveva letto nulla […]
Musica e pittura – forme, colori – mi apparivano più vere di tutti i libri conosciuti.”
Il primo film in programma è stato Quattro notti di un sognatore (Quatre nuits d’un rêveur, 1971), seguito da Le Notti Bianche (1957) di Luchino Visconti, tratti entrambi dal romanzo Le notti bianche di Dostoevskij del 1848.
Ma intendo qui soffermarmi sull’altra pellicola proposta allo Spazio Oberdan: Così bella, Così dolce (Une Femme Douce, 1968), ritratto tagliente di un dramma coniugale raccontato dallo scrittore russo nell’opera La Mite del 1876.
L’inizio di una fine?
Dalla porta a vetri si scorge una sedia che dondola sul balcone, un vaso cade bruscamente dal tavolo rovesciato, frantumandosi.
Un candido scialle si libra nel vuoto, per strada la gente accorre impietrita: sull’asfalto, esanime, giace il corpo di una giovane donna (Dominique Sanda).
In silenzio, un’anziana domestica (Jane Lobre) ascolta le parole del marito della povera suicida (Guy Frangin), che rievoca i ricordi di un amore fondato già in principio dall’impossibilità, di un matrimonio destinato alla prigione ed alla morte.
Una convivenza meschina
Tutto era cominciato quando lei, ancora adolescente, si era presentata al banco dei pegni di lui (i nomi dei coniugi non vengono mai menzionati, ndr).
Di famiglia povera, aveva accettato di sposarlo, ma già da subito erano iniziate le prime divergenze: l’uomo, rigido e orgoglioso, difficilmente riusciva a comprendere gli interesse e i gusti di raffinata cultura della moglie.
Così come lei, mite e malinconica, provava un costante fastidio per ogni gesto o parola del marito, anche quelli in apparenza generosi: “anche noi siamo una coppia stampata in serie”, gli aveva rimproverato gettando con ribrezzo il mazzo di fiori che lui le aveva raccolto.
L’unica salvezza? Annullarsi
Il loro amore è una routine, un supplizio; è una prigione dalle cui sbarre essi si spiano, si sorvegliano, si soffocano.
Anche quando lui vuole cambiare lavoro e le promette “avremo una vita diversa”, la giovane donna sa che quel futuro non sarà altro che un presente ripetuto e solamente addolcito: “ma noi non saremo diversi”, gli risponde.
Il suicidio diviene allora quasi un gesto necessario, unica soluzione alla meschinità e falsità del loro rapporto.
La ragazza si avvolge quindi nel suo scialle bianco, e con un’essenzialità agghiacciante ritornano le immagini iniziali del film: ma ora quel corpo che giace, circondato dal rumore di una città qualunque, ci appare ancor più distante dal suo folle amore.