Rassegne cinematografiche: ma Woody Allen è reale?

Considerato il soggetto, una tale rassegna potrebbe ben prestarsi ad essere un pesce d’aprile.

E invece proprio oggi giovedì 1 aprile, per l’appunto, parte a Milano, presso lo Spazio Oberdan di Viale Vittorio Veneto 2, un ciclo di proiezioni dedicate al grande genio comico Woody Allen.

Amato o odiato che sia, a mio parere vale la pena lasciarsi burlare da questo poliedrico ed irriverente autore cinematografico, da questo falso comico occhialuto.

Il truffaldino di Hollywood

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Già, perchè l’obiettivo di Woody Allen è falsificare ogni cosa, destrutturarla e smontarla così da poter liberare l’anima [del pubblico] dalle illusioni del linguaggio della società di massa; una “missione” che gli è propria da quando, in età infantile, si appassiona alla finzione dei trucchi di magia.

Fin dai tempi dei dialoghi riscritti per What’s Up, Tiger Lily (Che fai, rubi?, 1966) del regista Senkichi Taniguchi, Allen distorce la realtà: la lotta tra spie della storia originale diviene una lotta per impossessarsi di una preziosa ricetta di un’insalata con uova sode.

Nelle scene da lui aggiunte, poi, inserisce un episodio d’amore visto in silhouette, di modo che lo spettatore possa avere l’impressione di assistere ad un incontro amoroso in cabina di proiezione.

“Il mio primo film era così brutto, che in sette stati americani aveva sostituito la pena di morte.”

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E appunto nel suo primo film da regista, Take the Money and Run (Prendi i Soldi e Scappa, 1969), falsifica del tutto i generi massmediologici, trasformando la vita del protagonista Virgil Starkwell (Woody Allen) in un’inchiesta televisiva, con documentari ed interviste.

Virgil (il cui nome è ispirato a Charles Starkweather, noto criminale degli anni ’60) vuole essere a tutti i costi qualcuno, è un perdente che vuole avere successo.

Prova a suonare il violoncello, ma fallisce.

Dopo altri miserabili tentativi, viene rifiutato persino dalla criminalità organizzata; decide quindi di intraprendere da solo la carriera di rapinatore.

Ma in uno scontro a fuoco con la polizia si accorge che la rivoltella precedentemente rubata è in verità un accendino. E così via, in un crescere di gag semplici e per questo spassose, accompagnate da un raffinato nonsense verbale che costruisce situazioni paradossali.

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Starkwell incarna il risultato dell’American Dream, della ricerca di notorietà quale che sia la sua natura: “Pareva un tale cretino…chi poteva immaginarsi che fosse invece un grand’uomo, un delinquente?”, dirà una conoscente di Virgil.

“Zelig” e la beata finzione

Con Zelig (che in yiddish significa “beato“, ndr) del 1983 Allen realizza compiutamente la trasfigurazione della verità.

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Come in Take the Money and Run, la struttura narrativa viene qui concepita in veste di finto documentario d’epoca (mockumentary).

Da quella prima opera, tuttavia, sono passati più di dieci anni di altri sorprendenti film del regista; la tecnica non è più rozza ed imprecisa, ma può contare su dieci milioni di dollari di preventivo, ricerche e trucchi fotografici firmati da un professionista come Gordon Willis che donano alla pellicola quell’illusione tipica dei giochi di prestigio.

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Siamo infatti nel 1928. Leonard Zelig (Woody Allen) è “l’uomo del momento”, capace di trasformarsi a livello psicosomatico a seconda del contesto in cui si trova: dal grasso al magro, dal trombettista nero di un night al cinese di una fumeria d’oppio.

Solo la psichiatra Eudora Fletcher (Mia Farrow), il cui nome riprende quello della preside della scuola di Allen, troverà la causa di questa sindrome del “camaleontismo“: il suo è un semplice e disperato bisogno d’amore e d’approvazione (ovvero l’American Dream suddetto).

“La malattia di Zelig è un male che appartiene a ciascuno di noi”, dichiara il regista.

E ci spiega anche che l’adesione morbosa all’immagine altrui, per paura di non essere accettati, conduce a risultati paradossali: Leonard parteciperà pure ad un’adunata nazista a Berlino.

E’, questa, una ridicolizzazione ereditata da Il Grande Dittatore del maestro Charlie Chaplin: la dittatura nazista ha attirato tra i suoi adepti nientemeno che un ebreo, oggetto del proprio odio.

La truffa continua

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Ciò che rende la falsità di Zelig una realtà è la stessa struttura narrativa della pellicola, che con la precisione delle didascalie e la serietà del documentario d’epoca costruisce la credulità dello spettatore.

Questi confida nella verità di quel che invece è un continuo inganno.

E’ un falso, che inevitabilmente si rifà ad un altro attore-regista tra i più grandi imbroglioni (o meglio, ciarlatani come egli stesso definisce) del ‘900: Orson Welles.

Ma questa è un’altra storia, anzi, un’altra truffa. (continua)

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