Jojo Rabbit, bellezza e terrore

Sulle note di “I want to hold your hand” un bambino di una decina d’anni, chiamato Jojo, entra in scena indossando una buffa uniforme: l’aria che si respira è quella di una commedia piena di canzoni ambientata negli anni ’60 ma subito l’apparizione della macchietta di Adolf Hitler, che incita il bambino con fare militaresco, colloca il film in un periodo storico decisamente e tristemente diverso.

Jojo Rabbit
Jojo Rabbit

di Cristiano Salmaso

Jojo Rabbit

Jojo si ritrova così in un bizzarro raduno di boy scout, che in realtà è un campo di addestramento militare per futuri soldati nazisti, in balia di un crudele sergente che gli affibbia il soprannome di “Jojo coniglio” per lo scarso coraggio dimostrato. Giudicato quindi inidoneo alla leva Jojo, tallonato dal suo amico immaginario Hitler, si aggira per la città assediata dall’esercito cercando di scoprire come è fatto un ebreo per potergli dare la caccia.

Sua madre però, in barba alle fantasie filonaziste che stanno conquistando il piccolo, nasconde nella soffitta di casa loro una ragazza ebrea, che tanto le ricorda la figlia da poco scomparsa; Jojo lo scoprirà, insieme a diverse altre cose, alcune bellissime altre per niente (“Accogli tutto, bellezza e terrore” le parole di Rilke citate nel film).

E’ Scarlett Johansson, ancora una volta perfetta nel suo ruolo, ad interpretare la madre di Jojo: un personaggio struggente e totalmente riuscito, pieno di grazia, vitalità e poesia. Poesia che il film non si vergogna di provare in diverse occasioni – alcune certamente più riuscite di altre – come l’immagine delle farfalle nello stomaco, che trasforma per un istante il film in quel cartone animato che avrebbe potuto essere; anche il tono goliardico, dove i cattivi sono tutti stupidi e più sono crudeli più fanno ridere (come il sergente in versione glam o la Gestapo che ripete Heil Hitler!), contribuisce a dare al film quell’aria da cartoon nella quale lo spettatore ha sempre la sensazione che vinceranno i buoni.

Un ruolo chiave lo giocano anche le canzoni, che forse avrebbero meritato maggior spazio a scapito di qualche dialogo troppo tirato: versioni di grandi classici in tedesco (Beatles, Roy Orbison, Bowie, Love), insieme ad una quanto mai pertinente “I don’t wanna grow up” di Tom Waits, danno infatti un contributo decisivo alla tenuta del film.

L’operazione di sfottere il nazismo al cinema non è certo una novità ma fra i tanti predecessori, più o meno illustri, Jojo Rabbit riesce comunque a guadagnarsi un posto tutto suo. Il regista Taika Waititi, che non a caso in precedenza si era divertito tra creature Marvel e vampiri, con questo film alza il tiro: mette un bambino e la sua ingenuità a misurarsi con la figura di Hitler (che interpreta lui stesso in una parodia a metà tra Charlie Chaplin e Jim Carrey) e lascia che sia Jojo stesso a decidere: da amico immaginario Hitler diventerà un nemico di cui liberarsi con un calcio.

Jojo Rabbit è una pellicola non priva di soluzioni ingenue o stereotipate ma nel complesso curiosa, diversa, non omologata; con un immaginario estetico alla Wes Anderson ma anche con una vaga aria di magia tra Forrest Gump e Mary Poppins. E allora quando “Niente sembra avere più senso”, come dice Jojo, l’unica soluzione sembra essere una canzone: vince tutto Heroes in tedesco nel ballo finale, telefonato ma indispensabile, che è già una scena di culto.

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