Doveva trattarsi di un’opera innovativa, didascalica ma non pretenziosa, ma il botteghino l’ha stroncata prima ancora della critica. Resta un film di nicchia, ma non è assolutamente da escludere che in futuro se ne parli quanto meno come uno spartiacque verso un nuovo modo di concepire il cinema.
di Nicola Donadio
La trama
Finn è un famoso fotografo tedesco che conduce una vita frenetica. Entra in crisi esistenziale quando ad altissima velocità, a bordo della sua auto sportiva, vede letteralmente la morte in faccia e addirittura la immortala con uno scatto fotografico.
La paura della morte e mille domande iniziano ad assalirlo. Allora Finn decide di andare a cercare la serenità partendo improvvisamente per Palermo.
All’inizio, però, la crisi del fotografo si acuisce, nonostante la comparsa di una bella restauratrice, con la quale instaura pian piano un rapporto.
Sembra una Palermo a due facce: luogo dove isolarsi dal caos che il protagonista viveva a Dusseldorf, ma allo stesso tempo senza offrire nessuna concreta soluzione all’angoscia del protagonista.
E’ proprio a questo punto che la morte ritorna per un lungo ed intenso dialogo con Finn.
Un film rivoluzionario, difficile da capire
Wenders ha realizzato un film spregiudicato e rivoluzionario, a tal punto che né la critica né il pubblico sono sembrati pronti a recepirlo. Addirittura molti critici lo hanno ritenuto banale nei contenuti, in sostanza un film già visto.
In parte questo è vero. Il travaglio interiore dell’artista è stato spesso trattato da molti registi in maniera autobiografica. Tuttavia in questo film vediamo un’angoscia nuova, che affligge un fotografo che lavora in un mondo che sembra preso dal futuro, così evanescente da apparire quasi utopico (o sarebbe meglio dire distopico).
Non è nuovo nel cinema neanche l’ingresso in scena della Morte in prima persona.
Si pensi per tutti all’inizio de “Il settimo sigillo” di Bergman, quando appare questa maestosa figura che rappresenta la Morte. Wenders si ispira chiaramente a quest’ultimo film (Palermo Shooting è dedicato proprio a Bergman -e ad Antonioni-scomparsi durante la lavorazione).
A fare la differenza è Dennis Hopper, già gravemente malato, che dona alla Morte una grazia eccezionale e persino una certa umanità.
Si tratta dunque di un’interpretazione nuova che Wenders dà alla morte e alla paura che gli incute e che incute a tutti gli uomini. Non è più la morte dei tempi delle crociate, non è nemmeno la morte delle guerre e degli stermini contemporanei.
Morte spirituale prima ancora che fisica, paura della vita prima che paura della morte. Siamo alla morte post-contemporanea.
Una pecca del film è il livello della recitazione dei personaggi principali: Finn è interpretato dal cantante punk tedesco Campino, all’esordio come attore, Flavia, la restauratrice, è invece una Giovanna Mezzogiorno quasi intimorita dalla parte a lei assegnata.
Il digitale e la colonna sonora
Un capitolo a parte meritano le riflessioni Brechtiane su morte e fotografia che campeggiano nel finale della pellicola. Finn subisce una sorta di rimbrotto dalla Morte, perché tende a esorcizzare la sua paura di non esistere più, tramite la fotografia.
Catturare la realtà, ma anche dominarla tramite la manipolazione del digitale. Con il disuso dei negativi non esiste più una parte “altra” della vita.
Il digitale rende tutto poco credibile, fasullo, allontana dalla sostanza delle cose.
La prendiamo come un’autocritica dato che qui Wenders giunge ad un livello fotografico ed espressivo molto elevato, proprio grazie all’uso sistematico di tecnologia digitale.
Dunque, il regista si rende conto di come questa novità sminuisca il senso del reale e dell’arte, ma allo stesso tempo è rassegnato a non poterne fare a meno.
Quindi, decide di servirsene per raggiungere scopi espressive altrimenti di difficile realizzazione.
Se il discorso è questo fila abbastanza, in caso contrario è fin troppo palese la distanza tra teoria e prassi.
Splendida la colonna sonora. Ovviamente i pezzi sono veloci e distorti nella prima parte, pian piano il ritmo della musica si distende come quello della storia.
Spesso è direttamente l’inseparabile cellulare con gli auricolari di Finn a far giungere la musica anche allo spettatore. Si tratta di una novità destinata a far tendenza nei prossimi anni, dato il consumo di musica che oggi si fa in pubblico ma con la privacy di un paio di cuffiette.
Scelta vincente per un film di riflessione interiore come questo.
Le canzoni della colonna sonora mostrano la risaputa passione per la musica di Wim Wenders.
Si alternano pezzi e generi distanti di artisti come i Grinderman, i Portishead, i Velvet Underground e Fabrizio De Andrè, tanto amato dal regista tedesco.