Registi emergenti: con Massimo D’Orzi parliamo di ‘Adisa o la storia dei mille anni’

Dopo aver recensito il suo documentario Adisa o la storia dei mille anni, ecco l’intervista al suo regista Massimo D’Orzi.

Dopo aver esordito giovanissimo in teatro, Massimo D’Orzi ha frequentato la scuola di cinema FARE CINEMA diretta da Marco Bellocchio. Ha al suo attivo numerosi cortometraggi e documentari di cui Adisa o la storia dei mille anni, girato nel 2004, è il primo.

Nel 2009 ha realizzato Sàmara, suo primo lungometraggio tra qualche giorno nelle nostre sale.

Le domande al regista

Come è nato questo progetto? In particolare come mai un documentario su questa etnìa, perché hai voluto soffermarti sulla popolazione Rom slava e perché la scelta di una comunità non nomade?

E’ sempre difficile ricostruire la genesi un film, le motivazioni coscienti e non coscienti che muovono la realizzazione di un’opera. Ero già stato in Bosnia nel 1996 subito dopo la fine della guerra e la sensazione di orrore e di tragedia che ne avevo avuto era stata molto forte.

Quando qualche anno dopo mi coinvolsero nel viaggio che un fotoreporter stava facendo nell’area, fui mosso dall’esigenza di raccontare i balcani, la mitica ex-Jugoslavia crollata come un castello di carta ma dalle macerie reali, dal punto di vista dei Rom. Volevo con questo mettere in luce di riflesso l’orrore del delirio religioso e monoteistico,  la falsità dell’identità fondata sulla patria la razza e la nazione.

Mi chiedevo: cosa ne è stato dei Rom in una terra martoriata da guerre fratricide in nome di un dio contro l’altro e di un delirio di onnipotenza nazionale degli uni nei confronti degli altri, di loro che notoriamente non hanno dio né una terra di appartenenza, un territorio come nazione?

A questo si aggiunse la voce della donna bosniaca incontrata a Roma che mi disse: “Abbiamo compreso che qualcosa di tragico stava avvenendo quando abbiamo visto i Rom partire e che la guerra stava finendo quando li abbiamo visti tornare”. Ecco sui Rom noi misuriamo il nostro livello di umanità, interesse, intelligenza, ma anche il nostro livello di disumanità.

Quando decidemmo di partire, con un furgoncino messo a disposizione da Kasim Cizmic dell’Associazione U.N.I.R.S.I. non sapevamo assolutamente niente di quello che avremmo trovato lì, né se e dove fossero. Quindi la scelta non è stata a priori. Quando trovavamo qualche campo decidevo di filmare o no, e come farlo. Rispetto ai nomadi e non nomadi, la considero una questione di lana caprina.

La prima comunità che incontriamo nel film sono nomadi, gli altri no, alcuni sono artisti fabbri, gli ultimi sono pastori. Ma quello che interessava me, al di là di un presente, è la cultura che essi portano con sè, l’immagine direi, e quella è nomade nel senso più alto del termine,  è nomade anche quando la loro realtà è di stanziali.

La vecchia e il fuoco

Intendi approfondire l’argomento magari parlando del porrajmos (genocidio subito da rom e sinti durante la seconda guerra mondiale)?

In realtà penso di averlo fatto già in Adisa. Questo film non è un film sull’attualità e come tale è sempre attuale. Parla di loro, ma parla anche di noi. Parla del porrajmos certo, ma parla anche di quando gli zingari venivano bruciati sui roghi nel medioevo, parla dell’assimilazione forzata durante e dopo l’Illuminismo, e del conflitto nei regimi comunisti quando l’obbligo di essere tutti uguali si scontrava con la loro diversità.

Come è stato il rapporto e il confronto con questa esperienza e con le persone incontrate?

Ottimo, emozionante, commovente. Difficile raccontare l’incontro imprevedibile fra persone così diverse, noi e loro, per cultura, storia, realtà interiore. Non ero un entomologo in cerca di una nuova specie di insetti. Loro, immagino abbiano percepito la qualità del mio muovermi nei loro confronti e a questo hanno reagito.

Io nel 2004 ero un regista in cerca di un’arte e un linguaggio e loro me l’hanno offerta, gratuitamente. E’ paradossale che sia venuto proprio da coloro a cui arte linguaggio lingua cultura è stata sempre negata. Adisa è il frutto di questo incontro, fra un regista in cerca di un linguaggio e un popolo a cui il linguaggio è sempre stato negato.

Adisa e la sua ombra

Quale è stato il passaggio da “documentario storico” a “documentario antropologico”?

Bella domanda. Innanzitutto non avevo nessuna intenzione di fare un documentario storico, semmai la storia andava evocata attraverso il presente, e ciò che penso di aver fatto anche sottolinendo questo nesso nel titolo fra Adisa, la bambina rom scoperta a Varda e la storia dei mille anni, ovvero la cultura di un popolo che da mille anni attraversa paesi culture continenti.

Adisa è un documentario antropologico? Non lo so, ciò che mi interessa è sicuramente l’uomo. La natura senza l’uomo mi stanca e mi annoia molto presto, non potrei fare un film naturalistico, anche se il paesaggio nei miei film ha una sua importanza.

Mi interessa l’uomo perché è il viaggio più bello e in Adisa mi interessava esplorare “la diversità”, esseri umani così diversi da me da costringermi a diventare un altro, trovare forme nuove, tempi nuovi. E così ho fatto con Adisa. Il linguaggio del film sta lì a testimoniarlo.

Un volto orientale

Cosa ti ha lasciato questa esperienza umanamente e cinematograficamente parlando?

Adisa come dico sempre è il mio atto di nascita, è la mia scuola di cinema. Da loro ho imparato tutto sul tempo, molto di più di quanto abbia fatto all’università o nei corsi di regia. E come sappiamo tutti il “cinema è un mosaico fatto di tempo” come diceva il genio di Tarkovskij. Quindi sono andato a scuola dai migliori.

Umanamente un’esperienza fortissima, l’incontro con Adisa e il lavoro con lei a Varda o la parte sulle montagne di Gracanica sono state anche umanamente esperienze che hanno lasciato tracce profonde dentro di me, per cui ringrazio Luca Leone di Infinito Edizioni che mi ha permesso di ripercorrere quel viaggio e quell’esperienza attraverso le pagine di un libro che adesso accompagna il film Adisa in libreria.

Gruppo Rom in un interno

Qual è il motivo di determinate scelte tecniche come quella di una inquadratura fissa o di una fotografia basata sul un contrasto di chiaro-scuri così netta e marcata?

Scelte fondamentali. Un regista si esprime attraverso le immagini. Quindi le scelte apparentemente formali sono invece sostanza e contenuto. Quando arrivammo lì al primo campo, nei pressi di Mostar, incontrammo il capo della comunità locale e decidemmo di iniziare le riprese il mattino seguente.

Non ci dormii la notte se avessi ripreso quella comunità nello stato di miseria assoluta in cui viveva nella luce fredda e asettica del mattino freddo di quell’inverno del 2004, li avrei “uccisi” una seconda volta. Volevo creare spazi e tempi infiniti intorno ai loro volti per rendere giustizia della loro storia e della loro cultura.

Durante la notte pensai ai Mangiatori di patate di Van Gogh a quel quadro che dipinse in gioventù, prima dell’esplosione del colore. Ebbene, la mattina non mi presentai al campo, parlai delle mie perplessità al direttore della fotografia Stefano D’Amadio e decidemmo di iniziare le riprese al tramonto. Questo è Adisa.

La solitudine di una ragazza gitana

Il film è già uscito sugli schermi europei nel 2004, cosa ti aspetti dall’attenzione del pubblico italiano e come è stato accolto dalla critica e del pubblico stranieri?

Adisa ha ricevuto già nel 2004 un’attenzione da parte della critica notevole e un interesse del pubblico, quando riusciva a vedere il film, sempre calorosa, molto partecipe. Ma devo dire che oltre al nostro pubblico sono sempre stato interessato alla loro reazione al film e da lì sono arrivati i commenti più belli.

Anche loro si chiedevano come avessi potuto raggiungere quel livello di intimità e calore, che si sente nel film. Spesso i lavori sui Rom sono fatti “a distanza” o puntano sul folklore. Io non sono andato in nessuna di queste direzioni. Per questo Adisa colpisce per l’originalità, il linguaggio, come anche voi avete sottolineato.

Ed è per questa ragione che adesso sento un interesse nuovo rispetto al film, un’attesa di poterlo vedere come se avessero sempre saputo della sua esistenza, ma doveva maturare qualcosa di noi, della storia, del nostro rapporto con ciò che è diverso da noi, sconosciuto…

Il regista Massimo D'Orzi

Ringrazio Massimo D’Orzi per la sua disponibilità ed invito i lettori di cinemio a non perdersi questo interessante documentario e a leggere le recensioni delle nostre collaboratrici

One Response

  1. rita

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