E’ nelle nostre sale da giovedì 9 aprile La dolce arte di esistere, un film di Pietro Reggiani con Francesca Golia e Pierpaolo Spollon.
La dolce arte di esistere
di Claudia Romito @Percorsi Up Arte
In un mondo in cui l’invisibilità psicosomatica è un disturbo riconosciuto, Roberta (Francesca Golia) e Massimo (Pierpaolo Spollon) vivono le loro vite tra sparizioni e ricomparse. Roberta ha bisogno di attenzioni. Nonostante la sua timidezza, non può fare a meno delle persone. Appena resta da sola, scompare. Massimo, invece, non sopporta di avere sguardi su di sé. Diventare invisibile per lui è quasi un rimedio, che diventa però una condanna nel momento in cui lo sguardo da cui fugge è quello di una ragazza di cui inizia a sentirsi innamorato.
Un film sull’invisibilità… psicosomatica
La dolce arte di esistere, di Pietro Reggiani è una favola surreale. Un film curioso e un po’ ingenuo, fortemente voluto dal regista. Scritto nel 2007 e girato nel 2012, l’opera seconda di Reggiani uscirà il 9 aprile in due sale italiane (Roma e Torino). Un film low budget, il cui prezzo è levitato a causa dei tempi e delle oltre 70 location alle quali il regista non ha voluto rinunciare.
Dopo una lunga gestazione La dolce arte di esistere ha finalmente visto la luce. L’invisibilità è il motore portante dell’intera pellicola. Un’invisibilità psicosomatica, che non sfocia in considerazioni metafisiche e solo accidentalmente in questioni semiotiche. Il punto di partenza, lo spunto, da cui il film parte è però anche un po’ il punto di arrivo. Dei due protagonisti sappiamo poco, degli altri personaggi ancora meno.
L’onnipresente voce fuori campo (Carlo Valli), parla al loro posto, mostrandoceli come degli animali in gabbia da osservare a debita distanza. Una scelta registica consapevole, che contrasta però con “normalità” ricercata dallo stesso Reggiani. Il surreale disturbo dei due protagonisti, nelle intenzioni del regista, è una malattia scientificamente e socialmente riconosciuta. I due ragazzi ne sono affetti come tanti altri, e il loro comportamento non crea mai grande sorpresa, né genera alcun gioco di equivoci.
La malattia dei due protagonisti dà vita a piccole gag, ma non si trasforma mai in un espediente dichiaratamente comico. Nell’universo narrativo in cui il film ci immerge l’invisibilità è socialmente accettata. Alcuni la ammirano, altri ne sono infastiditi, ma tutti sanno che sparire è un sintomo come un altro. Dissolversi nell’inquadratura è come starnutire. L’intenzione registica appare quella di riprodurre un’irreale normalità.
Siamo infatti lontani dal realismo, sia nella recitazione che nella fotografia. Gli attori sembrano mossi dai fili invisibili, e come marionette, a tratti si trovano a illustrare le parole del narratore, di quella voce fuori campo che motiva ogni loro scelta e descrive ogni loro emozione. I personaggi appaiono cavie da laboratorio. Quando Roberta decide di partecipare a un Reality, inseguendo il mito della visibilità a tutti i costi per superare il suo fastidioso scomparire, la vediamo ancor più come un buffo essere innaturalmente posto davanti alle telecamere.
Le buone intenzioni non mancano, ma La dolce arte di esistere non riesce a convincere fino in fondo. Un film che avrebbe potuto scavare di più nei personaggi e indagare in maniera più intima quel disturbo che, in maniera meno letterale, coinvolge davvero una buona fetta della nostra società. Perchè – e su questo punto il film è efficace – l’invisibilità non è un super potere, ma una malattia che si cura imparando la dolce arte di esistere.