#Venezia74: Stamattina è giunto al Festival di Venezia forse uno dei titoli mainstream più attesi, l’ottavo film del regista Darren Aronofsky che, dopo tre anni, torna con mother!. Protagonisti Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Michelle Pfeiffer, Ed Harris.
Certamente sarà un film che dividerà nettamente critica e pubblico perché mother!, sin dal titolo, provoca fascinazione e rabbia. Il regista, dopo aver lasciato la sua lettura atea di Noah, decide di raccontare la storia di una coppia dal punto di vista di lei, la bellissima Jennifer Lawrence, tenera ragazza che ama il compagno con cui vive, un Javier Bardem tenebroso e ambiguo, scrittore in cerca d’ispirazione che trova non nella sessualità, nella sua lei quanto nell’improvvisa (?) incursione di una coppia di sconosciuto, Harris e Pfeiffer, sublimi nel raccontare un’ambiguità e la Lawrence mette volto e corpo per farci vivere emotivamente quello che sente il suo personaggio senza mai strafare nell’ambiguità e nell’incertezza di quanto le accade attorno.
In tutto questo c’è la casa, la loro fortezza, che pian piano viene invasa e il silenzio si sostituisce al rumore e le certezze diventano labili e la privacy ad un tratto svanisce.
La prima ora di mother! sembra promettere un ottimo thriller/horror d’interni, quello fatto di sguardi e sospetti e dove la messa in scena minimale si accosta ad una complessa elaborazione della ripresa e del montaggio sonoro che diventa personaggio attivo nel tessuto sensoriale della pellicola. Poi succede qualcosa e da quel momento parte una danza delirante che negli ultimi tre quarti d’ora di pellicola lascia interdetti e forse spazientisce fino ad un finale che non giustifica la presenza del perturbante e che lascia aperti a troppe considerazioni e supposizioni per l’autore di opere come Il teorema del delirio (1998), The Wrestler (2008) e perfino Il cigno nero (2010). Aronofsky si supera ed entra in un’anarchia e in un delirio puro dove non bada più all’escandescenza della componente metaforica e iconografica e, per questo, supera perfino il suo lavoro più discutibile, The Fountain (2006).
Dentro a quest’opera si può leggere tanto (senza voler fare spoiler): come quanto l’egocentrismo di un’artista porti a prosciugare tutto l’amore e l’affetto di chi ha intorno, si parla di privacy al giorno d’oggi, di come e quanto cambino le priorità di una donna quando da compagna, amante, diventa madre (!), di come si possa ricominciare dalle ceneri di un rapporto per poterne iniziare un altro arrivando perfino a considerazioni religiose dentro anche ad elementi iconografici come il cuore della casa nello scantinato, il logorio della stessa come quello della protagonista, il diamante di Bardem come fonte d’ispirazione così fondamentale eppure così fragile.
C’è tanto, troppo, e il tutto diventa poi indistinto e per quanto tecnicamente Aronofsky raggiunge ormai un ritmo ed una costruzione del clima invidiabile, riferendosi ad opere che vanno dallo Shining di Kubrick al cinema di Terry Gilliam e fino a Roman Polanski non riesce però a giustificare e dar corpo al materiale che spudoratamente metto sul banco, componendo solo qualcosa di facilmente attaccabile e fortemente discutibile, forte solo di un buon cast e di un’esperienza sonora partecipata.
Per il resto rimarrà un film che nulla aggiunge all’operato di Aronofsky e che resta paradossale per quanto delirante sia nel suo insieme e nell’essere stato presentato in tali condizioni a noi.