Presentato in anteprima mondiale al Festival di Locarno, L’estate di Giacomo,opera prima di Alessandro Comodin, è uscito nelle sale italiane il 20 luglio. Ecco la nostra recensione.
L’estate di Giacomo
L’estate di Giacomo, scritto e diretto dall’esordiente Alessandro Comodin, è quella di un ragazzo di diciotto anni rimasto sordo in tenera età che, dopo aver riacquistato l’udito grazie ad un’operazione, esplora la campagna friulana in compagnia di Stefania, sua amica d’infanzia sedicenne. Una camminata nei boschi, un frugale picnic, la sensazione di perdersi tra arbusti tutti uguali e la felicità di ritrovarsi, soli ma insieme, in un’oasi paradisiaca isolata dal mondo, sulle brulle rive del Tagliamento.
Il giovane regista trentenne si ispira alla realtà per tratteggiare le tinte favolistiche del suo primo film: il fiume è, infatti, l’ambiente in cui è cresciuto e ha trascorso l’età adolescenziale e Giacomo il fratellino sordo del suo migliore amico, oltre che alter ego attraverso cui tenta di rivivere (e far vivere allo spettatore) le sensazioni di noia, sensualità involontaria, voglia di avventura e abbandono che quelle sponde gli hanno trasmesso. L’estate di Giacomo è una fiaba moderna, che sfrutta la vicenda del giovane per nutrirsi di suoni e paesaggi, veri protagonisti della pellicola.
Comodin, come afferma in un’intervista, tenta di «rendere la realtà il più astratta possibile», come è nello spirito delle favole, servendosi di immagini concrete, grezze, ruvide, al limite dello stile documentaristico. Il montaggio è semplice e ricorda da vicino i film della Nouvelle Vague, il girato prodotto con un’unica telecamera a mano impedisce l’uso di campi/controcampi e il cuore del film è costituito da lunghi piani sequenza, in cui lo spettatore si trova a seguire nella loro avventura i due ragazzi, inquadrati spesso di spalle. A volte la macchina da presa è ferma e cristallizza le immagini, fino a renderle veri e propri e quadri impressionisti.
L’assenza di campi e controcampi ha come risultato una fagocitazione di spazio e rilevanza da parte del fuoricampo: raramente i due sono inquadrati insieme, come molte sono le frasi non dette, gli eventi non narrati direttamente e che si possono solamente immaginare o intuire. Il regista dà vita a un cinema di sensazioni e silenzi più che di movimenti e parole.
Il ritmo è volutamente lento, quasi come se Comodin volesse trascinare i due corpi all’interno del bosco prima e dell’oasi dopo, lasciando come contraltare allo spettatore tutto il tempo necessario per entrare in empatia con i personaggi. Un’empatia che, a dire il vero, si fatica a provare se non nella sequenza della festa alle giostre. Nei dialoghi vivaci e infantili, in cui c’è da registrare senza alcun moralismo un eccesso di sproloquio, che alla lunga risulta fastidioso, Stefania si configura come la sponda perfetta per le azioni e le parole ritrovate di Giacomo; lei è l’Altro a cui il protagonista tende e si rivolge e, insieme, i loro due corpi ingenui nell’Eden di quella piccola radura rimandano direttamente alle figure di Adamo ed Eva, o perlomeno così sembra fino all’inaspettata conclusione.
Uno degli elementi più discutibili dell’intera opera è infatti il finale che, inaspettato e tardivo, è completamente slegato dal resto della trama, se così possiamo definirla. Senza rivelarvi più del necessario, la svolta amorosa (non fra i protagonisti) fa crollare l’impianto su cui avevamo imparato a conoscere gli stessi, la loro complicità, i loro sguardi e i loro giochi. Comodin sembra voler dire “non mi interessa quello che volete vedere, io vi mostro ciò che è/è stato”, senza tra l’altro fornire nessun indizio sul perché si sia giunti a una conclusione del genere.
Riassumendo, trovo che siano da apprezzare ne L’estate di Giacomo l’istanza documentaristica, ridotta minimalisticamente all’essenza, la purezza e la delicatezza con cui il regista ci racconta la sua storia d’innocenza e spontaneità. Bellissime anche le inquadrature che riducono lo schermo a un quadro e il bombardamento percettivo che subisce lo spettatore nei lunghi piani-sequenza. Sicuramente meno condivisibili la scelta dell’epilogo e la pressoché totale incapacità di suscitare empatia nello spettatore, se non in un paio di sequenze. Un film senza dubbio autoriale, che però sembra cercare continuamente un guizzo, una sensazione ancestrale che non sempre riesce a restituire.