Candidato agli Oscar come Miglior Film Straniero, Timbuktu di Abderrahmane Sissako mostra al resto del mondo un Islam libero che lotta contro la follia dell’estremismo.
Timbuktu
di Sara Sonia Acquaviva @Percorsi Up Arte
Timbuktu è da poco stata occupata da un gruppo improvvisato di fondamentalisti religiosi, ma gli abitanti, che vivevano fino ad allora in pace e serenità, inizialmente mantengono le loro semplici abitudini nonostante proibizioni e imposizioni proclamate ogni giorno dagli jihadisti. Dal divieto per la musica a quello per lo sport, dall’obbligo del velo per le donne ai matrimoni forzati, la gente di Timbuktu pacifica e libera, viene pian piano sottomessa alla nuova legge degli invasori.
Soltanto Kidane e la sua famiglia, nella loro tenda tra le dune poco lontano dalla città, sembrano riuscire a conservare la propria serenità, almeno fin quando Amadou, il pescatore, uccide senza pietà uno dei loro vitelli. A quel punto Kidane cerca di fare chiarezza ma la situazione gli sfugge di mano…
Il film inizia con una caccia: un gruppo di ragazzi esaltati con dei fucili in mano rincorre un cucciolo di antilope con l’intenzione di spaventarlo. Questa prima scena delinea da subito il profilo ridicolo e infantile degli jihadisti che occupano la città di Timbuktu. Con la stessa drammatica superficialità, infatti, questi improvvisati fondamentalisti religiosi, emanano divieti ed emettono sentenze nei confronti degli abitanti dissidenti. In poco tempo viene bandita la musica, le risa, lo sport e l’amore. Pena la morte.
L’Islam secondo chi lo conosce
Nonostante la serietà del tema, Sissako dissemina sapientemente il film di momenti poetici, ironici e a tratti grotteschi, che rafforzano e allo stesso tempo alleggeriscono, le scene meno digeribili. Mostrando alcuni curiosi aspetti della città di Timbuktu, come la convivenza tra tre etnie e lingue diverse che esaspera la comprensione anche tra gli stessi jihadisti, l’indipendenza che traspare nelle risposte taglienti delle donne alle provocazioni degli occupanti, la speranza e l’immaginazione con le quali gli abitanti “sfuggono” dall’oppressione, Sissako riesce a raccontarci un Islam del tutto diverso da quello che siamo abituati a conoscere in occidente, strappandoci più di un sorriso tra la comprensione e lo stupore.
La sceneggiatura delinea personaggi semplici che accettano e affrontano il bene e il male, così come la vita e la morte, come eventi del destino: “sia quel che deve essere” è la frase che pronuncia Kidane quando viene processato sommariamente.
Anche i “cattivi”, i jihadisti, ci vengono presentati dal loro lato umano, senza per questo giustificarne le atrocità affrontate nel film, senza mai eccedere nella violenza realistica che, come afferma lo stesso Sissako, non è necessario esibire sullo schermo cinematografico per denunciare e condannare dei fatti realmente accaduti.
Una nota particolarmente positiva sulla fotografia limpida e pulita, e per la scelta mai banale delle musiche originali del compositore Amine Bouhafà che fonde il suono delle voci con strumenti africani, extraoccidentali ed europei sullo sfondo affidato all’Orchestra Filarmonica della città di Praga. La musica esprime pienamente il messaggio universale del film rafforzandone e arricchendone le emozioni suscitate dalle immagini.
Un film che possiamo dunque definire come una tavolozza di colori dai toni poetici, ironici e mai banali. Da vedere preferibilmente in lingua originale per poterne apprezzare la ricchezza della varietà di linguaggi, arriverà nelle sale italiane il 12 febbraio.