Dal 15 marzo nei cinema italiani Rachel, il nuovo film di Roger Michell, noto in particolare per il fortunato Notting Hill. Tratto da un romanzo della prolifica Daphne du Maurier, dalle cui opere sono stati adattati per lo schermo due classici come Rebecca, la prima moglie e Gli Uccelli di Hitchcock, ha come protagonista nel ruolo che dà il nome al film Rachel (!) Weisz e, in quello di Philip, Sam Claflin, il Finnick Odair della serie Hunger Games.
Rachel
“L’ha fatto? Non l’ha fatto? Di chi è la colpa?”: il dubbio amletico di Philip ci accoglie ad inizio film in voice off (espediente narrativo apparentemente ineluttabile negli ultimi tempi).
Siamo in pieno Ottocento, in Inghilterra. Lui è un orfano accolto sotto l’ala protettrice del cugino più grande, Ambrose, con cui ha instaurato un rapporto esclusivo ai limiti del morboso. Si separano solo quando il cugino-tutore è costretto ad andare in Italia per ragioni di salute. A Firenze, però, Ambrose incontra una vedova, che inspiegabilmente parrebbe essere pure lei sua cugina, Rachel, ed inaspettatamente la sposa, nella perplessità generale, specialmente di Philip, che sostiene con naturalezza col padrino e con la di lui figlia Louise che fino a quel momento il cugino non si era interessato ad alcuna donna perché gli bastava lui.
Mentre Louise spera evidentemente che Philip decida di seguire l’esempio del cugino, quest’ultimo gli invia una lettera sconcertante in cui accusa la moglie del peggioramento delle sue condizioni di salute e di stare tentando di ucciderlo. Già in partenza non particolarmente entusiasta del matrimonio, Philip coglie la palla al balzo per precipitarsi in Italia e liberare l’adorato cugino dalle grinfie della temibile megera. Arriva, ahimé, troppo tardi, quando Ambrose è ormai morto e la sua fantomatica consorte partita per altri lidi.
Folle di rabbia, Philip promette vendetta tremenda vendetta, con tanto di pugno agitato nel vuoto, contro la vedova, sicuramente colpevole della morte del cugino, secondo lui – anche se a ben guardare l’unico erede è lo stesso Philip, mentre a lei non viene lasciato nulla. Sufficientemente soddisfatto del fatto di aver proclamato a gran voce il suo desiderio di giustizia, il giovane ereditiere torna in Cornovaglia ad attendere placidamente il giorno del suo venticinquesimo compleanno, quando entrerà ufficialmente in possesso di tutti i beni del defunto cugino.
A questo punto, sorpresa, passa a trovarlo, già che dall’Italia è abbastanza dietro l’angolo la – per proprietà transitiva ormai divenuta – cugina Rachel, fino ad allora esclusivamente evocata ma mai vista in persona.
Philip dimostra immediatamente di che tempra è fatto, sfogando in modo implacabile la sua ira funesta contro colei che ritiene l’assassina dell’amato cugino: prima di tutto non la saluta neanche; poi la invita a cena, ma solo per interposta persona, tramite il servitore; quindi, quando lei non si degna di palesarsi, insinua perfidamente che sia perché “è troppo grassa per fare le scale”; infine le scale le sale lui per andare a dirgliene quattro. In quel preciso istante la vede, e basta, niente, in un batter d’occhio ne è perdutamente innamorato.
Seguono un susseguirsi di momenti, uno più imbarazzante dell’altro, in cui il nostro “vendicatore solitario” scodinzola dietro la gonnella dell’ambigua vedova di Ambrose quanto un “glorious puppy”, un adorabile cagnolino in cerca della mamma (come con una definizione memorabile lo descrive lei stessa). L’unica non sorprendentemente rimasta immune al fascino misterioso della bella Rachel (che sembra riuscire a conquistare chiunque) è Louise, che tenta invano di mettere in guardia Philip principalmente contro se stesso e la sua brama di conquistare la donna.
In tutto ciò, Rachel oscilla tra l’apparire un’innocente madonna addolorata ed una fredda e calcolatrice vedova nera, lasciando con le sue azioni, il suo concedersi e ritrarsi, il suo adescare e poi indignarsi, aperte entrambe le opzioni. Contribuisce a confondere ulteriormente il già non iper-lucido Philip la presenza poco chiara dell’amico “del cuore” di lei, l’italiano Rinaldi, interpretato da Pierfrancesco Favino.
Un insieme di clichés scontati per un risultato finale alquanto scadente
Nonostante le buone premesse (un regista di un, seppur distante nel tempo, blockbuster; un’attrice premiata con l’Oscar, anche se da non-protagonista; un soggetto della stessa autrice di due dei film di maggior successo di Hitchcock), Rachel non riesce a convincere.
A partire dalla colonna sonora di Rael Jones, con le sue note di pianoforte modello misto horror-classico, che insistono a sottolineare pedissequamente ogni attimo, giusto per creare fin dalla prima scena un’atmosfera di ansia in cui si teme chissà cosa debba avvenire. Anche se poi non avviene.
Continuando per una serie di escamotages registici francamente ormai troppo abusati, come la collana di perle che si rompe e le perle che cadono per le scale al rallenti, o, al contrario, le immagini a velocità accelerata, quasi a scatti, con i colori virati, forti, sovraesposti ad indicare i momenti in cui Philip sta delirando e ha incubi.
La stessa ambientazione, con la casa di campagna polverosa, lievemente decadente, la terra circostante brulla, il vento, gli interni bui, claustrofobicamente affollati di cose accantonate, dona una fortissima sensazione di déjà-vu che non contribuisce alla riuscita del film.
Altri punti deboli di Rachel
La trama – e questo è probabilmente un difetto all’origine – ha delle incongruità innegabili in sé e per sé: per quale motivo sono tutti cugini? Per donare un aspetto più morboso al tutto? Perché mai la vedova se ne va quando arriva Philip in Italia, per poi ripresentarsi più o meno dal nulla alle porte della sua casa in Inghilterra? Per non parlare del (SPOILER ALERT) improbabilissimo finale, dove basta che Philip pensi intensamente una cosa che questa si verifichi, dove Rachel, fino ad allora comunque volitiva ed indipendente, improvvisamente lo ascolta, dove anche una congiunzione astrale sfavorevole quasi certamente ci mette lo zampino, altrimenti non si spiega come l’evento drammatico risolutivo possa aver luogo così, giusto perché Philip aveva in mente che poteva succedere e ha suggerito a Rachel di prendere un determinato cammino e, tac, è successo.
Disseminati qua e là risultano altrettanto fastidiosi, come le note del piano di cui sopra, anche i riferimenti “incestuosi freudiani”, tipo lei che lo comanda amorevolmente, ma a bacchetta, e gli dice “good boy”, bravo ragazzo, va a dormire, come farebbe una madre. O “bevi, bevi, bevi”, con un’insistenza che bisogna davvero essere Alice-nel-paese-della-Meraviglie per non farsi venire un sospetto, ed invece, niente, Philip che era partito col considerarla una strega non se ne fa venire nemmeno mezzo – almeno per lungo tempo.
O la frase – che però rimane indimenticabile – quando lei lo paragona ad un cagnolino in cerca della mamma. Anche in questo caso paiono delle forzature, come se il regista avesse ben stampato in mente gli ingredienti-base per un buon thriller a sfondo gotico ottocentesco e via, li avesse spalmati senza ritegno nel film, giusto per seguire alla lettera la ricetta.
Bilancio Finale
La Weisz ha il viso adatto per ben rappresentare a tratti la purezza innocente all’inverosimile, a tratti la possibile inquietante perversità che costituisce il mistero irrisolto di Rachel, e ci sono alcuni istanti in cui la fotografia e – soprattutto – i paesaggi naturali tolgono il fiato. Ma, certo, non bastano questi pochi elementi a salvare l’intero film. Tornando alla domanda iniziale, “[L’ha fatto? Non l’ha fatto?] Di chi è la colpa?”, quasi sicuramente del regista.
Grazie per L analisi puntuale e la recensione che nonostante un’analisi sufficientemente critica, non toglie la voglia di visionare il film
Ciao Elettra! Mi fa piacere che tu l’abbia apprezzata e anche che tu voglia comunque vedere il film, che ha in ogni caso degli aspetti positivi. Tra l’altro mi interesserebbe sapere il tuo parere, una volta che l’hai visto, e se ti sei ritrovata o meno nelle cose che io ho osservato!
A presto, magari, e grazie del tuo commento!