In uscita il 27 settembre Mio figlio, il thriller sperimentale di Christian Carion con Mélanie Laurent, Olivier de Benoist e Guillaume Canet. Girato in soli 6 giorni sulla base di un canovaccio scritto dallo stesso regista, ha la particolarità di essere stato filmato senza che l’attore principale conoscesse i dettagli della trama, né avesse memorizzato un vero e proprio copione. In pratica, Canet era all’oscuro di tutto, come fosse lui stesso uno spettatore, e buona parte del film si basa proprio sulla sua capacità – notevole – di improvvisazione.
Mio figlio
Julien (Guillaume Canet) è un padre appassionato del proprio lavoro, che lo porta spesso a viaggiare all’estero. Le molte assenze hanno messo in crisi il rapporto con la madre del suo bambino di 7 anni, Marie (Mélanie Laurent), da cui infatti si è ormai separato. Di ritorno in Francia, scopre da un messaggio in lacrime lasciato sulla sua segreteria telefonica dalla ex-compagna che il figlio è scomparso mentre era in campeggio con la scuola. Julien si precipita nella zona di montagna dove il piccolo è sparito e si ritrova, impotente, a dover fronteggiare, oltre all’ansia per l’accaduto, il senso di colpa per non essere stato sufficientemente presente nella vita del bimbo.
Ci sono vari momenti di tensione, tra lui e Marie, tra lui e il nuovo compagno di quest’ultima, Grégoire (Olivier de Benoist), tra lui e la polizia locale. Spaesato, senza sapere cosa fare, Julien appare spesso come un animale in gabbia, che inizia a sbattere da una parte e dall’altra per tentare di uscire senza però ottenere altro che sfogare la sua frustrazione per non riuscire a farlo. Lui, annientato dalla paura di perdere per sempre il figlio, aggredisce chiunque gli capiti a tiro, sospetta di tutti, del nuovo fidanzato della compagna, quasi della compagna stessa, che scopre essere incinta di un altro bambino e che quindi, nel suo delirio, vorrebbe liberarsi di quello avuto in precedenza con lui.
Dopo avere dato di matto, fisicamente accanendosi su Grégoire e verbalmente, chiarendosi con Marie, Julien riesce a focalizzare la sua attenzione su dei filmati degli ultimi giorni trascorsi dal figlio con la madre, fino al momento in cui lo avevano accompagnato nel luogo dove poi è scomparso. Scoprendosi una vena investigativa più sviluppata di qualsiasi altro detective impegnato nel caso, Julien inizia piano piano a seguire una pista, questa volta meno campata per l’aria di quella della presunta colpevolezza del fidanzato della ex.
Parte quindi una caccia a chi gli ha rapito il figlio, condotta con la disperazione e l’assenza di scrupoli di un padre che non ha nulla da perdere e con l’angosciosa consapevolezza che ogni minuto che passa diminuiscono le probabilità di ritrovare il bambino vivo.
Un esperimento interessante ma non del tutto riuscito
Fare recitare gli attori dando loro solo una traccia della sceneggiatura, non un vero e proprio copione, è un procedimento originale ma non completamente innovativo, già altri registi – da Terence Malick a Abdellatif Kéchiche a Claude Lelouch – lo hanno sperimentato in precedenza. Di solito lo scopo è di evitare un eccesso di forzatura nell’interpretazione e premiare la spontaneità delle reazioni istintive. In questo caso, in realtà, l’unico ad avere solo una traccia iniziale dello script e ignorare il seguito era il protagonista, Guillaume Canet, perché, a differenza sua, gli altri attori conoscevano la propria parte.
La scelta del regista, che ha già lavorato in precedenza con Canet, è stata di puntare sulla sua bravura nell’improvvisare, nel restare fedele al personaggio e reagire alle situazioni come se fosse la vita vera, in presa diretta. In effetti non si può dire che Carion abbia sbagliato a scommettere sul compagno di Marion Cotillard: Canet è intenso, sempre credibile, in grado di reggere con la sua efficace performance il peso dell’intero film. La sua frustrazione, il suo senso di impotenza, la sua rabbia cieca sono quasi concrete, si toccano con mano, così come l’amarezza e il senso di colpa per la sua assenza nella vita del figlio. Canet stesso ha definito l’esperienza “monumentale” per un attore, e si è dimostrato più che all’altezza del compito.
Molto emozionante anche l’interpretazione di Mélanie Laurent, come sempre assolutamente impeccabile ma questa volta con una spontaneità e una veridicità impressionante – complice forse la quota di improvvisazione richiesta anche a lei, che doveva pur rispondere alle reazioni istintive di Canet, non conoscendo prima quali potrebbero essere. Ad esempio, in una scena di alterco tra i due, Canet ha raccontato di aver spiazzato chiunque reagendo diversamente dal previsto e cominciando ad alzare lui la voce contro la Laurent (che, invece, avrebbe dovuto essere quella che gridava), preso com’era dallo stress emotivo della sua condizione e dall’immedesimazione nel padre che ha perduto un bambino. L’attrice è riuscita comunque sempre a fronteggiare egregiamente ogni comportamento inaspettato del partner, dimostrando anche lei una notevole capacità di adattamento.
Mio figlio ha una durata piuttosto corta, rispetto agli standard attuali, giusto 1h20’, il che permette una certa densità e una tensione che in uno spazio di tempo maggiore forse si sarebbe persa. Anche perché – e qui passiamo ai lati negativi – l’assenza di sceneggiatura, se da una parte ha creato delle interessanti situazioni al limite del documentario, con dialoghi estremamente realistici e poca o nulla affettazione, ha d’altro lato causato inevitabilmente qualche gap e incoerenza. La parte migliore rimane fintanto che Canet si confronta con la ex del suo personaggio e il suo attuale compagno, o con gli ufficiali di polizia: l’assenza di script dà vita a interazioni commoventi e molto più credibili che se fossero state scritte a tavolino. Dove però la mancanza di un piano, di uno copione sensato si fa evidente è quando inizia la caccia in solitaria ai rapitori del figlio. A questo punto il brancolare nel buio di Canet diventa anche un po’ quello di Julien sullo schermo, e assistiamo ad una serie di incontri, di minacce, di sfoggio di testosterone e di rabbia, di violenza a volte gratuita, senza che però sia mai troppo chiara l’effettiva dinamica dei fatti.
Anche il ritmo del film cambia, da quasi intimista che era dapprincipio, come uno scavo interiore nei sentimenti dei protagonisti, diventa più accelerato, quasi solo azioni slegate una all’altra che si susseguono, perdendo francamente per strada un po’ di plausibilità. Da padre alle prese con un dramma Canet diventa uomo che si fa giustizia da solo, e questo scarto risulta vagamente brutale e troppo repentino. Le motivazioni dei rapitori, le modalità con cui hanno perpetrato il crimine, il perché lui non abbia pensato di chiamare rinforzi, insomma, una serie di varie ed eventuali portano lo spettatore ad una leggera alzata di sopracciglio, e il film stesso a perdere in genuinità.
Bilancio finale di Mio figlio
Pur con i limiti dettati dalla scelta stessa del meccanismo – l’attore che recita ignaro del copione condiviso dal resto della troupe – Mio figlio riesce a offrire momenti di sana tensione e una prima parte decisamente forte a livello emotivo, dove è facile identificarsi e soffrire le ansie di questi genitori cui è stato portato via il figlio. Peccato per la deriva lievemente superomistica che prende nella seconda parte, dove forse qualche indicazione di regia o sceneggiatura in più sarebbero state consigliabili.
Appena visto il film… Dopo aver letto questo articolo capisco meglio l’intenzione del regista ma mi sarebbe piaciuto anche capire cosa c’era dietro il rapimento!!
Grazie mille Silvia! Siamo contente ti sia piaciuto 🙂
A me è piaciuto. Solo il finale mi ha lasciato un po’ interdetta perché non si è capito chi fossero i rapitori, il mandante a cui telefonano e soprattutto il perché. Molto bravo e realista il protagonista.
Ciao Patrizia! Sono contenta che il film ti sia piaciuto. In realtà, credo che non lo sapessero proprio chi fosse il mandante, ecc, ma che si trattasse giusto di un canovaccio, di uno spunto narrativo per innescare le reazioni degli attori, e in particolare di Canet. Come scrivevo nella recensione, trovo l’esperimento interessante, ma concordo con la tua opinione: qualche informazione in più e una trama meno abbozzata, più approfondita, almeno in alcuni momenti, sarebbe stato maggiormente auspicabile.
Ciao Silvia! Sì, in effetti anche a me e, come ho scritto nella mia recensione, penso che qualche dettaglio in più avrebbe giovato, anche al risultato finale del film. Va detto che l’esperimento è talmente insolito e Canet talmente in parte che gli si riesce a perdonare qualche incongruenza e l’insoddisfazione della mancanza di spiegazioni, credo. Grazie per il tuo feedback!
A questo film è incompleto e abbozzato. Mancano dei pezzi, dei pezzi grossi. Forse erano necessari più di 6 giorni per completarlo. Forse ci sarà un sequel?
Mi raccomando il sequel: non me lo voglio perdere. Anzi, consiglio al regista di girarlo in tre giorni e di nascondere anche a se stesso la trama. Magari ne esce qualcosa che ha senso…
Grande Giovanni, sei tutti noi!!!
In complesso il film mi è piaciuto,c’e un grande però
C’e qualcuno in redazione che mi può spiegare il finale…è questa è una grande delusione,ad esempio chi è l’altro bambino,a quale scopo i malviventi rapiscono il bambino,i tre verranno arrestati?
Buongiorno, ho visto ora il film. Molto bello. Grande pathos ed esperimento riuscito. Il protagonista ha capito cosa ne sarà dei bambini dalle parole del rapitore torturato con la fiamma ossidrica: “io i bambini non li tocco… Li rapisco solo per loro”. Sembrerebbero vittime di un organizzazione di pedofili. Il presunto capo delle scene finali non chiama un superiore, sta chiamando il rapitore torturato e ucciso a catenate. Il film è paurosamente credibile ed ho la nausea come il padre quando scopre la verità. L’hotel stile shining. … Il padre disarmato che sbaraglia tre malfattori armati… Poco Rambo e molto umano nel suo rimpiattino di porte cigolanti è persino meglio. Il finale è una ventata di ossigeno con l’amarezza del carcere mitigata dal freesbe nel prato. Il cellulare della Police che scende l’angusta valle (Roja?)… rimanda ai neri pensieri legati alla piaga della pedofilia. Se un film deve trasmettere… Questo lo fa con solo 6 giorni di lavoro. Un capolavoro allora!
grazie mille della bella analisi Paolo!
Gesù Cristo ha fatto il mondo in 7 giorni e questo in 6 pensa di fare un film finito? Bella la prima parte ma poteva spiegare la seconda…
Condivido l’analisi fatta da Paolo. Aggiungo un altro dettaglio. Il nuovo compagno della moglie ha venduto il figlio ai pedofili per costruirsi il mega chalet con vista monte bianco. Gran bel film.
Un bel film ,ma come hanno scritto altri manca di grossi pezzi. È vero che è fatto in sei gg ma il padre va sempre a colpo sicuro. Poteva far fuori anche l ultimo e così si chiariva meglio la storia . Però piacevole
Bello affascinante sempre preso dai fatti, i film francesi o esperimenti o no sempre abbastanza gustosi…la realtà del fatto porta un angoscia da far pensare……il lieto fine , evviva….tutta la violenza che vediamo su altre sponde……..due Attiri sublimi veri spontanei…..veramente un bel fine vacanze mi sono regalato.
Il peggior film che ho visto negli ultimi 30 anni.
Una vera schifezza
L’argomento di cui trattava era molto forte per un film, tutto sommato, piatto e senza una vera trama. Bellissima la scenografia.
Grazie Simo per la tua analisi. Continua a seguirci e commentarci 🙂