Inarrestabile da decenni ormai, dopo essere stato presentato come film d’apertura all’ultimo Festival di Cannes arriva nelle sale italiane il nuovo, 47esimo, film di Woody Allen. Ancora con un cast d’eccezione e ambientato negli anni trenta tra Los Angeles e New York arriva in sala Café Society. Dal 29 Settembre.
Cafè Society
Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg; Batman V Superman, Il sosia) lascia la bottega del padre insoddisfatto e si trasferisce in California, dove ad accoglierlo malvolentieri c’è lo zio Phil Stern (Steve Carell; La grande scommessa, Foxcatcher), grosso produttore che lo inizia con piccoli lavori all’industria cinematografica. Gli presenta poi Vonnie (Kristen Stewart; Equals, American Ultra), segretaria dell’uomo e donna di cui Bobby s’invaghisce da subito.
Cafè Society: il trailer
Il centro del personaggio
“Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo e vedrai che un giorno c’azzeccherai!”. Questa è una delle tante, tantissime, frasi ad effetto che riempiono questo quarantasettesimo film da regista di Woody Allen che è ormai giunto ad un punto di non ritorno seppur i concetti espressi nel suo cinema riescano sempre a trovare causa ed effetto in ambienti e tempi diversi e a non perdere, quasi mai, lo smalto degli esordi, seppur con meno originalità e stupore. Sia chiaro: ciò che Woody doveva dire lo ha già detto.
Il suo personaggio, esternazione esasperata del suo essere neanche tanto nascosta nel tempo e che ha fatto di lui sia persona che personaggio nei film quanto nella vita, è cresciuto, maturato, ha fallito ed è finito poi per disintegrarsi fino a scomparire (Harry a pezzi, Hollywood Ending).
Da allora, il regista statunitense si è limitato a proseguire la vita di un personaggio che cambia stato, cambia tempo, abiti e corpo, ma che essenzialmente rimane sempre specchio del suo autore. Dopo un sublime Joaquin Phoenix in una versione alleniana di “Delitto e castigo” ecco Jesse Eisenberg, già presentato nell’universo del regista, fronteggiare qui i dissapori della vita secondo le idee e la filosofia che abbiamo imparato a conoscere, amare e condividere, di Woody.
E poi?
Oramai è un cinema maturo e riconoscibile il suo, un cinema che si estranea e si emancipa dal concetto classico di storia, da una drammaturgia che oramai è risaputa e coscientemente il regista non perde più neanche il tempo di soffermarsi a raccontare. Woody va oltre, si concentra ormai sui dialoghi pungenti, sulle tematiche da sempre a lui care e che qui rifioriscono particolarmente grazie a Eisenberg, alla (troppo breve) apparizione di Blake Lively e ai divertenti siparietti della famiglia ebraica del protagonista.
E poi Woody ci ricorda, in Café Society, che il suo è un cinema che giunge ad un punto in cui vive anche estraniato dalla parola, con inquadrature che diventano sempre più quadri, qui sostenuti dal ritorno caro del direttore della fotografia Vittorio Storaro, e che portano all’apice di un discorso che, anche se già detto e ribadito, a volte con ottimi risultati a volte meno, ci porta a chiedere, con la sua chiusa amara, dove quindi giungerà in questa (ahimé) ultima fase di un regista che ha donato tutto se stesso, con la parola e con l’immagine, e del quale si sentirà un grande vuoto quando, speriamo più tardi che mai, andrà a disturbare con la sua critica pungente anche qualcun altro, in una dimensione lontana da qui.